mercoledì 2 marzo 2011

Un prete chiamato Lefebvre


di Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro

“Monsignor Lefebvre era più che un amico, un fratello, una vera guida spirituale per me, scevro da ogni materialismo, un uomo che adoravo. (…) Le confesso che ero un pellegrino fedele di Ecône. Non mangerò più al suo fianco, in mezzo ai suoi parrocchiani di ogni nazionalità. E mentre mi benediceva, pregando per me in mezzo a tutta quella gente, ai fedeli venuti da ogni angolo del mondo, amava presentarmi come un musulmano senegalese, così che io ne andavo fiero ed ero contento. Una bella persona, di un’intelligenza viva e che non aveva amore che per Dio e per Gesù”. Firmato Ababacar Sadikhe Thiam, musulmano, in data 26 marzo del 1991 e inviato al vescovo di Dakar, cardinale Hyacinthe Thiandoum. Il Marcel Lefebvre di cui parla Ababacar Sadikhe Thiam non è un omonimo, è proprio lui, il “vescovo tradizionalista”, il “vescovo ribelle”, il “vescovo scismatico”. Fa un certo effetto scoprire che l’elogio funebre più bello per il difensore della Messa antica e della tradizione cattolica, per il nemico di quel falso ecumenismo che equipara tutte le religioni, per il sostenitore della regalità sociale di Cristo lo abbia scritto un seguace di Maometto. Come un cavaliere medioevale, anche il vescovo Lefebvre aveva il suo amico musulmano, che invitava a pranzo al suo tavolo, che esibiva senza imbarazzi ai suoi fedeli a Ecône, che benediceva. Ma nella società plasmata dai mass media la storia è fatta dai titoli di giornale, e così è nata la leggenda del “vescovo ribelle”, che prese corpo il 29 agosto 1976, il giorno in cui monsignor Lefebvre, già sospeso a divinis per la sua opposizione alle innovazioni postconciliari, celebrò pubblicamente a Lilla una Messa in rito romano antico. “Nuovo passo verso lo scisma”, “Il tempo delle sfide a Roma è superato: siamo alla prova di forza”, “Monsignor Lefebvre sfida oggi Paolo VI con la Messa proibita”. Una presa d’atto sbrigativa che trasformò subito il cliché in moneta corrente.
Eppure, proprio quel 29 agosto 1976, durante l’omelia, il cosiddetto “vescovo ribelle” spiegò benissimo la natura di quanto stava accadendo. “Io non sono né ho mai sognato di definirmi ‘il capo dei tradizionalisti’. (…) Perché? Perché anch’io sono un semplice cattolico. (…) Ho, come voi, le medesime reazioni davanti alla distruzione della Chiesa, davanti alla distruzione della nostra fede, davanti alle rovine che s’accumulano sotto i nostri occhi”. Un semplice cattolico, scritto così, senza virgolette. Quanto sarebbe stato più facile comprendere la sua azione, il suo pensiero, la sua dottrina, la sua fede se qualcuno, allora, avesse considerato il “vescovo ribelle” un semplice cattolico. Ma gli anni Settanta, forgiati nella fucina dell’ideologia conciliare non prevedevano la categoria di “semplice cattolico”. Una “Nuova chiesa” aveva sostituito una “Vecchia chiesa”: si apparteneva all’una o all’altra, i buoni a quella “Nuova” e i cattivi a quella “Vecchia”.
In virtù di questo schema, la totalità dei progressisti, buona parte dei conservatori e persino non pochi tradizionalisti si sono abbandonati a una lettura del “fenomeno Lefebvre” prigioniera in vario modo del mito del Concilio. Con duemila anni di vita e di dottrina a disposizione hanno giudicato quegli eventi guardandoli dal buco della serratura del triennio 1962-‘65. Tutti accomunati dalla convinzione che i “rigurgiti passatisti” si sarebbero estinti per semplice via anagrafica. Bastava attendere. Tanto più quando la scomunica latae sententiae colpì nel 1988 il vescovo francese, monsignor Antonio De Castro Mayer e i quattro vescovi da loro consacrati al fine di garantire la sopravvivenza della Fraternità Sacerdotale San Pio X fondata da Lefebvre. E il tentativo di soffocare il “fenomeno tradizionalista” finì per dargli una fisionomia precisa e riconoscibile e fortemente identitaria e non sempre mansueta.
In questo stagno, è piombato di recente un libro di Cristina Siccardi. Una studiosa che si è imbattuta nel vescovo francese lavorando alla vita di Paolo VI e ne ha tratto un volume edito da Sugarco con il titolo “Monsignor Marcel Lefebvre. Nel nome della Verità”, senza per questo mettere in discussione la definizione di Papa della luce che sta nel sottotitolo della sua biografia di Montini. E’ difficile raccontare la storia di questo prelato senza dividerla, almeno per comodità, tra un prima e un dopo il Concilio. Sarebbe anche sbagliato concettualmente trascurare questo spartiacque. Ma, come mostra la Siccardi, c’è una cifra che lega ogni momento la vita di Lefebvre, dall’entrata in seminario alla morte, è la romanità, che il giovane Lefebvre impara ad amare al seminario francese Santa Chiara di Roma. Romanità e santità sacerdotale. Ordinato nel 1929, viene assegnato come vicario alla parrocchia di Le Marais a Lomme, una piccola borgata operaia a ovest di Lille e lì scopre che proprio questo i fedeli chiedono a un prete: “I parrocchiani” ricorderà molti anni dopo “giudicano la religione secondo il loro sacerdote. (…) Cos’è che convince la gente della verità della Chiesa? E’ la santità. Questa si vede. Bisogna che le persone sappiano che il sacerdote è un uomo di Dio e non un mediocre paesano, imborghesito, pronto come gli altri a prendersi le sue vacanze, un uomo che ha un impiego e basta”. Con questo ideale di prete, entra nella famiglia religiosa dei Padri dello Spirito Santo e diventa missionario. Nel 1932 parte per il Gabon. Viaggia per i villaggi del Continente nero, si occupa di anime, soccorre i corpi, celebra Messa, confessa, distribuisce l’Eucaristia, celebra matrimoni, battezza adulti e neonati. In una parola, evangelizza. E, siccome evangelizza, civilizza. Siccome sana le anime, cura i corpi, rende più umana la vita di uomini che a fatica sospettavano di esserlo. Arrivato in visita ai cantieri del lago Gomè, ottiene il permesso di riunire gli operai per la Messa e per le confessioni. Poi va dal capocantiere e lo sbatacchia per le condizioni di lavoro: “Il reclutamento è abominevole e vergognoso, si tratta davvero di schiavitù. Le condizioni di lavoro, di paga, le abitazioni sono deplorevoli, soprattutto nelle miniere. Gli indigeni sono in grado di lavorare bene, purché abbiano l’ambiente e l’atmosfera del villaggio, e il conforto religioso che desiderano”.
Quando, nel 1943, viene nominato superiore della missione di Lambarené, conosce il medico tedesco della vicina missione luterana, che si chiama Albert Schweitzer. La missione cattolica collabora con quella protestante trasportando i materiali che servono alla costruzione dell’ospedale e il dottor Schweitzer si reca alla missione di padre Lefebvre per curare i religiosi malati. Il medico alsaziano, grande appassionato di Bach, nelle feste suona l’organo della chiesa di San Francesco Saverio, mentre padre Marcel celebra la Messa. Gli indigeni assistono rapiti allo spettacolo di quelle liturgie, accompagnate da Bach o dal canto gregoriano. “Riunire tutti intorno all’altare” annota padre Lefebvre “questo è lo scopo del sacerdote. Così, in missione la prima cosa da fare nella zona è costruire una chiesa. (…) bisogna vedere come gli indigeni sono felici della bellezza e della grandezza della loro chiesa, perfino quando si trovano nella miseria più nera”. Il miracolo di un sorriso più forte della miseria cantato in gregoriano da gente che, poco più tardi, verrà indotta da missionari malati di inculturazione a tornare ai costumi tribali che aveva volentieri abbandonato.
Nel giugno del 1944, Lefebvre si trova in Gabon quando viene raggiunto dalla notizia della morte di suo padre. Ne parla il giornale Nord Libre, subito dopo che gli americani sono sbarcati in Normandia: René Lefebvre è morto il 4 marzo del 1944 nel campo di concentramento KZ di Sonnenburg, nel Brandeburgo. La sua ultima lettera alla famiglia porta la data del 9 settembre 1941, e dice: “Sapete che io muoio da cattolico francese, monarchico, perché per me è con l’istituzione di monarchie cristiane che l’Europa, il mondo intero possono trovare stabilità, la pace autentica”.
Una lezione sulla rilevanza sociale della fede che padre Marcel trasmette volentieri ai giovani seminaristi che gli sono affidati: “Non vi infiacchite, non vi dividete, studiate bene la morale sociale. State in guardia dall’essere ‘tutti per il popolo’ a priori, e dall’essere per ‘coloro che possiedono ricchezze’ a priori. Entrambi esistono ed esisteranno sempre”. In refettorio fa leggere durante i pasti la lettera Testem benevolentiae di Leone XIII sull’americanismo, e i testi di Pio X, dall’enciclica Pascendi Dominici Gregis alla Lettera ai vescovi francesi intorno al Sillon.
Nel 1947, a quarantadue anni, Lefebvre viene creato vescovo, e mandato a Dakar, poche decine di migliaia di cattolici in mezzo a tre milioni di musulmani. Come motto episcopale sceglie “Et nos credidimus caritati”, e noi abbiamo creduto alla carità, mentre il suo comandamento operativo è un cattolicissimo e praticissimo “non perdere tempo”. Dotato di “zelo missionario” viene nominato da papa Pio XII suo rappresentante per tutte le colonie francesi, riconoscendogli di “aver governato prudentemente, saggiamente e attivamente il vicariato apostolico di Dakar”.
Poi arrivano i favolosi anni Sessanta e Lefebvre diventa suo malgrado il simbolo di una crisi interna alla Chiesa di cui parlerà il mondo intero. Membro della Commissione preparatoria del Concilio, giudica positivamente i risultati di questa fase preliminare. Ma nota quasi subito che vi sono teologi e vescovi che hanno in mente cambiamenti sostanziali alla dottrina cattolica. Si tenta di rompere con la tradizione della Chiesa. Il vescovo francese non è solo non è solo e dà vita al Coetus Internationalis Patrum, rappresentativo di 450 padri conciliari. Si deve a una petizione del Coetus se nel 1965 Paolo VI, contro il parere negativo della commissione teologica, proclamerà “Mater Ecclesiae” la Vergine Maria, con un motu proprio che riaffermerà il primato papale sul Concilio.
“E’ impossibile andare blaterando che solamente le applicazioni postconciliari sono cattive” dice più tardi. “Le ribellioni del clero, la contestazione dell’autorità pontificia, tutte le stravaganze della liturgia e della nuova teologia, la desertificazione delle chiese, non avrebbero dunque nulla a vedere, come si è affermato anche di recente, con il Concilio? Ma andiamo!”. Ma è pronto a riconoscere i meriti di Paolo VI, che il 30 giugno del 1968 proclama sul sagrato di San Pietro lo stupendo Credo del popolo di Dio: “Un atto che dal punto di vista dogmatico è più importante di tutto il Concilio”. Un gruppo di seminaristi, gli chiede di fare qualcosa per la loro formazione cattolica e nasce la Fraternità Sacerdotale San Pio X, stimata, apprezzata e riconosciuta dalla Chiesa e poi soppressa.
Poi, è un correre di gran carriera fino alla morte, il 25 marzo 1991, passando per sospensione a divinis, scomunica latae sententiae, accuse di scisma e demonizzazioni. Tutto vissuto attraverso una convinzione espressa con lucidità dolente fin dall’omelia della Messa di Lille: “Ora io faccio (…) un’opera in tutto simile a quella che ho compiuto per trent’anni ed ecco che, improvvisamente, sono sospeso a divinis, magari fra un po’ scomunicato, separato dalla Chiesa, rinnegato, che so? E’ possibile? Forse che quello che ho fatto per trent’anni era pure suscettibile  d’una sospensione a divinis? Penso, al contrario, che se in passato io avessi preparato dei seminaristi come lo si fa oggi nei nuovi seminari, io sarei stato scomunicato. Se allora avessi insegnato il catechismo che s’insegna nelle scuole, mi avrebbero considerato eretico. E se avessi detto la Santa Messa come la si dice ora, mi avrebbero considerato sospetto d’eresia, fuori dalla Chiesa. A questo punto io non comprendo più. Qualcosa ha cambiato la Chiesa ed è a ciò che voglio giungere…”.
Due degli atti più importanti del pontificato di Benedetto XVI siano il motu proprio Summorum Pontificum con cui ha ridato cittadinanza alla Messa in rito antico e la revoca del decreto di scomunica del 1988. Due atti talmente eversivi rispetto al pensiero dominante da non limitarsi far pensare a un futuro imprevedibile sino a poco tempo fa, e addirittura da imporre una rilettura del passato. Quando si rilegge il passato, crollano i muri, e, soprattutto, mutano le fisionomie degli uomini. Allora certe espressioni inquiete del Lefebvre degli ultimi tempi additate troppe volte come segno di durezza del cuore potranno essere lette per ciò che erano veramente, sofferenza per le condizioni della Chiesa sul corpo di un vescovo aggredito dal cancro.


Fonte: Il Foglio 1 marzo 2011

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