giovedì 13 ottobre 2011

Tradizione e postconcilio



Quod et tradidi vobis
La Tradizione vita e giovinezza della Chiesa
<><><>
Cap. VII  Tradizione e postconcilio
Un documento fondamentale per gli approfondimenti, tratto dalla più recente opera di Mons. Brunero Gherardini: "Quod et tradidi vobis" - La Tradizione vita e giovinezza della Chiesa. Si tratta del VII Capitolo: Tradizione e Postconcilio. Per gentile concessione dell'Autore. Si rimanda all'intero volume della Casa Mariana Editrice, Frigento 2010



Cap. VII

Tradizione e postconcilio
Son consapevole che l'esposizione dell'insegnamento conciliare sulla Tradizione è stato troppo veloce, sintetico, forse anche parziale. Non era facile metter a confronto in poche pagine tre Concili come il Tridentino ed i due Vaticani, su un argomento di tale e tanta portata ecclesiale. Il limite rientrava nella prospettiva del VI capitolo già mentre l'iniziavo.
Limite non è inganno, non manomissione, non contraffazione. Ciò che i detti Concili formularono ed in modo autentico insegnarono sul concetto e la realtà della Tradizione è stato riferito in misura certamente ristretta, ma fedele. Che il Tridentino abbia superato la distinzione del "partim/partim" e si sia concentrato sull'esistenza tanto d'una "fonte" scritta, quanto d'una "fonte" orale, ambedue consegnate alla Chiesa di sempre da una "successione ininterrotta", è assolutamente incontestabile.
Né è contestabile la ripresa di codesta dottrina da parte del Vaticano I, che la innerva nella proposta magisteriale della Chiesa docente.
Né, infine, si potrà contestare che la pronunciata "reductio ad unum" del Vaticano II non solo toglie di mezzo, almeno di fatto e nonostante le non poche contorte dichiarazioni in contrario, la distinzione fra Rivelazione scritta e Rivelazione orale, ma tende a confonder in questa anche il Magistero della Chiesa, per la semplice ragione ch'esso è, relativamente alla Tradizione attiva e passiva, l'autorità che propone e l'insieme delle verità proposte.
Non è mia intenzione di tratteggiare, neanche per sommi capi, una vera storia del postconcilio; finirei alle calende greche. Dovrei analizzare, uno ad uno ed ognuno nel proprio contesto, i singoli teologi che v'operarono; per intendersi, quelli della c. d. nouvelle théologie che Pio XII aveva messo a tacere e che Giovanni XXIII volle invece ai vertici delle commissioni conciliari, praticamente consegnando loro il Concilio e permettendo che vi facessero il buono e il cattivo tempo. E continuaron a farlo, purtroppo, anche a Concilio ultimato. Mi soffermerò soltanto su qualcuno degl'indirizzi postconciliari, con riferimento almeno implicito al problema della Tradizione.
Perché si comprenda meglio l'atmosfera nella quale vegetava e vigoreggiava il complesso dei suddetti indirizzi, ricorderò che il Vaticano II era stato appena chiuso e qualcuno già parlava di Concilio superato. Altri chiedevan l'immediata indizione d'un Vaticano III nella speranza di portar alle conseguenze estreme la declericalizzazione della Chiesa, all'insegna del "popolo di Dio" e del rifiuto tanto della "christianitas" quanto della "societas perfecta". Il Concilio, secondo i protagonisti del nuovo ed inarrestabile trend impresso alla riflessione ecclesiale sulla Fede ed ormai ben al di là della stessa nouvelle théologie, doveva considerarsi un punto d'arrivo (senza ritorno) e di partenza: una Chiesa era finita, un'altra era appena appena nata. Era finita la Chiesa arroccata sul giuridicismo centralizzato di Roma, era nata la Chiesa profetica dello Spirito; insomma, la struttura clericale della Chiesa era ormai morta e sotterrata, sostituita da una Chiesa laicale, dialogica, ecumenica, immersa nel mondo dal quale partiva, non al quale benignamente si volgeva. Libri ed articoli si rincorrevan a vicenda nella difesa della novità; i titoli fan sorridere, ma son indicativi: Fine della Chiesa costantiniana, Una Chiesa nuova, Una nuova immagine della Chiesa, Una nuova autocoscienza ecclesiale, Il nuovo volto della Chiesa, Una Chiesa per oggi, La Chiesa di domani. Più di venti secoli di storia s'eran volatilizzati; un evento epocale, imprimendo la sua spinta in avanti alla novità raggiunta, li aveva neutralizzati. Sui venti Concili ecumenici precedenti il Vaticano II aveva passato un fatale colpo di spugna. E tutto questo fu detto Tradizione vivente.
                                                                             
1 - Devianze postconciliari - E' possibile che il quadro sopra descritto in termini decisamente non rosei lasci qualcuno non solo con l'amaro in bocca, ma anche col tormento d'un ritornante interrogativo: e se le cose non stessero esattamente così? L'amaro in bocca è effetto della grave situazione determinatasi in misura ogni giorno crescente nell'era postconciliare; il tarlo roditore del suddetto interrogativo nasce invece dal sapersi metter in crisi con la domanda sulla verità delle cose e sulle loro cause sufficienti. Dunque, è proprio vero che, col Vaticano II, si volle - o per lo meno qualcuno volle - far punto e da capo?
Un'adeguata risposta a siffatta domanda può nascer da accurate ricerche nei vari archivi specialistici, da analisi attente, da elaborati scientificamente ineccepibili. In realtà, ciò è stato già fatto[1] almen in parte. E fatto in modo egregio. M'atterrò quindi ad alcune delle conclusioni raggiunte.


1.1 - Nessuno pensi d'accedere non dico ai documenti del Vaticano II, ma allo spirito che li anima e che sta alla radice delle devianze annunciate, senza passar attraverso Karl Rahner. Del Concilio questo noto e celebrato personaggio fu non dico il nume tutelare, ma il faro cultural teologico; come tale, ispirò in misura massiccia gli elaborati di quasi tutte le commissioni e sottocommissioni conciliari. La sua azione fu sinistramente geniale: ribaltò san Tommaso con san Tommaso. Non ignorava, infatti, l'Angelico, ma ne dava un'interpretazione in linea con il suo principio di fondo: "lo spirito" anima e spinta propulsiva di tutta la realtà mondana ("der Geist in Welt") che, come tale, conduce l'ermeneutica rahneriana di san Tommaso ad una "svolta antropologica", riducendo la stessa metafisica a pura e semplice antropologia[2]. Cioè, praticamente, annullandola.
Ora, se il principio d'immanenza è l'unica forza del divenire storico, e quindi l'unico orizzonte sul quale s'inscrive ogni passo in avanti della scienza e della coscienza umana, non c'è più posto, non può più essercene, per la Tradizione, qualunque sia il suo ambito. Rahner fu molto sensibile al problema dell'evoluzione del dogma e ne scrisse più volte. In una di queste s'espresse significativamente così: "La storia dell'evoluzione del dogma è essa stessa (si noti questo "essa stessa": non solo esclude la Rivelazione divina, ma si sostituisce ad essa come una rivelazione in perenne divenire) svelamento progressivo del suo mistero. Nella Chiesa la realtà viva della coscienza della fede ritorna su se stessa progressivamente, a poco a poco, non in una riflessione previa"[3]. Se le parole hanno un senso, le ultime escludon perentoriamente perfino l'idea d'una tradizione. Rahner, tuttavia, crede di poter metter d'accordo non dico una qualunque tradizione, ma il possesso della verità salvifica da parte della Chiesa ed i suoi cangianti contenuti. Parla anch'egli di conoscenza evolutiva, ferma restando la verità che non s'evolve se non nella conoscenza progressivamente acquisita[4]. E, ciò dicendo, si fa eco della dottrina classica sul progresso estrinseco del dogma e della Fede. Se non che poco dopo aggiunge: "Le proposizioni che (noi), poggiati sul Verbo divino, divenuto esso stesso «carne» in parole umane, enunciamo su di esse, non possono esprimerle in maniera totale ed adeguata in una sola volta"[5] . Ciò comporta, di conseguenza, che la verità salvifica non può esser pronunciata una volta per sempre, ma è sottoposta a sempre nuove e più adeguate formulazioni. Non a caso poco dopo si legge che "il mezzo d'appropriazione della rivelazione" è sempre ed "in ciascun caso condizionato storicamente" e diretto "a trasformare le proposizioni di fede, udite originariamente, in proposizioni che riferiscano quanto si è udito alla situazione storica e spirituale dell'uomo che le ascolta". In caso contrario - e contrario può esser solamente quello della Tradizione ecclesiastica - "la proclamazione della fede sarebbe solo ripetizione monotona delle frasi della Scrittura e forse anche di una limitata tradizione, sempre materialmente le stesse"[6].
S'insinua qui l'idea d'una progressione viva della conoscenza che, in concreto, l'uomo può aver della Fede. Rahner chiarisce il suo pensiero ricorrendo all'esempio dell'amore. "L'amore progressivo vive dell'amore originario, conscio sin da principio di se stesso e di ciò che da sé è diventato mediante l'esperienza riflessa". Qualcosa d'analogo si verificherebbe anche per il possesso della verità salutare. C'è un rapporto tra il "possesso originario, conosciuto non in modo riflesso né espresso in proposizioni, e la conoscenza riflessa della conoscenza originaria, articolata ed espressa in proposizioni...La conoscenza riflessa affonda sempre le sue radici in una conoscenza anteriore", mentre "la conoscenza originaria vive nell'attuazione di sé costituita dalla conoscenza riflessa, per la quale essa stessa si è arricchita. La conoscenza riflessa s'inaridirebbe in se stessa, se non vivesse della conoscenza fondamentale più semplice, o la comprendesse totalmente. La semplice conoscenza fondamentale s'offuscherebbe se si rifiutasse, perché più ricca e più piena, di passare alla conoscenza riflessa"[7]. C'è, dunque, una verità originaria, non tematica, non ancora ridotta in pensieri e proposizioni e molto più ricca di tutta la sua futura e sempre nuova conoscenza riflessa. Questa a sua volta arricchisce in qualche modo quella originaria, che ne riceve una forma tematica. Sta qui, in questa progressiva dialettica di conoscenza e d'esposizione più propria e più piena, la vita della rivelazione e della sua verità. A tale vita anche altri si son poi appellati per superare la statica ed ormai "fossilizzata" Tradizione ecclesiastica e da questa passar alla tradizione vivente.
 

1.2 - Quanto ho sopra esposto potrebbe far pensare che K. Rahner abbia, per così dire, solo sfiorato il problema della Tradizione, o l'abbia appena intravisto da lontano, senza farglisi direttamente incontro per affrontarlo. Non è così. Tra le trattazioni dirette figura la conferenza da lui tenuta il 10 febbraio 1963 alla Katholische Akademie - Bayern e poi pubblicata per ben due volte ed in tempi ravvicinati[8]. La conferenza presenta il solito procedimento rahneriano: dire e subito dopo o negare il già detto, o attenuarlo, o introdurvi il tarlo del dubbio. In effetti, riconosce che "tradizione significa trasmissione", ma subito aggiunge che "questo concetto ha preso un senso ristretto e non è detto che sia del tutto fuori discussione"[9]. Rhaner lo discute sulla base dell'evento-Cristo, d'un Cristo atematico, del Cristianesimo come farsi più che come esserci; tutt'è insomma ridotto ad avvenimento, riconoscendo ch'esso è "la proclamazione della verità di Dio", ma precisando che non si tratta d' "una verità universale, necessaria e astratta"[10].
Basta questa dichiarazione per azzerar ogni traccia di Tradizione nella storia del Cristianesimo. Ma Rahner non si contenta di così poco. Al posto della "verità universale, necessaria, astratta" pone l'avvenimento di Dio che, liberamente e solo per grazia, entra in rapporto con l'uomo attraverso l'evento-Cristo, ch'è insieme rivelazione e salvezza. Proprio perché tale, "bisogna che quest'avvenimento...arrivi sino a noi...attraversando il tempo e lo spazio che costituiscono l'ambiente dell'esistenza umana"; dove "fin a noi" significa non soltanto umanità rigenerata, ma anche dimensioni spazio-temporali del detto ambiente. Sottolineando intenzionalmente tali dimensioni, la logica rahneriana prima ne deduce la paràdosis come realtà trasmessa, poi individua l'oggetto della trasmissione non in un complesso di proposizioni, ma "nel dono e nella comunicazione, insomma nella consegna di sé fatta dal Figlio di Dio, incarnato, ...definitivamente trasmesso e consegnato di nuovo, dopo l'avvenimento della Cena e della Croce, nella celebrazione...dell'Eucaristia"[11]. L'equivoco, neanche troppo sotterraneo, consiste nel giudicare semplici proposizioni le verità salvifiche rivelate[12] e nel tacere le competenze ecclesiastiche in materia di paràdosis e del correlativo Magistero.
a) Di ciò Rahner parla più tardi, quando la paràdosis che Gesù fa di se stesso "nella sua realtà, nella sua azione e nella sua parola" vien recepita dagli apostoli e dalla viva voce di costoro ritrasmessa ad altri, i quali in tal modo ne fan "l'esperienza immediata presso i loro contemporanei". "Ed ecco, in sostanza, ciò che costituisce la Chiesa...: la comunicazione" non solamente della sua dottrina, ma "di Gesù Cristo stesso all'umanità....e della Chiesa in quanto possiede al proprio centro Gesù Cristo, (è) la Chiesa degli apostoli ciò che viene trasmesso e perpetuato...in tutto ciò che questa Chiesa è, in quel che crede e quel che celebra, nei suoi sacramenti, nella sua vita concreta e nella sua esperienza, nella sua Cena e nell'espressione riflessa di quel che ha udito" dalla parola diretta degli apostoli[13].
Sì, qui si parla proprio della Chiesa, ma d'una Chiesa che compie la sua paràdosis nella complessità d'ogni suo elemento di base, anzi della sua stessa esperienza, e non di competenze specifiche, di cui sia stato insignito un suo organo, p. es. il vertice del suo governo, comprensivo del c.d. Magistero ecclesiastico. Almeno in questo contesto, K. Rahner ignora la specificità di questo o d'altri organi, parla della "Chiesa primitiva nel senso proprio del termine" come della "entità che deve trasmettersi all'avvenire" e solo questa Chiesa primitiva riconosce come "entità normativa per tutti i tempi ulteriori"[14].
b) La reticenza sull'organo di Magistero non appar immotivata. Al dotto e riverito conferenziere interessava, infatti, porre le premesse per arrivar al suo scopo: dichiarare che l'entità normativa "s'è oggettivata essa stessa, riprodotta, rappresentata, espressa in ciò che chiamiamo Sacra Scrittura", con la conseguenza che "la parola della Sacra Scrittura" è "sempre la parola concreta e attuale della Chiesa viva,...tramandata al proprio avvenire da questa trasmissione vivente che la Chiesa fa di se stessa, dalla testimonianza vivente che la Chiesa dà nella propria tradizione". La trasmissione "della Scrittura come scrittura di Dio stesso...resta, necessariamente e per una legge strutturale, affidata alla tradizione vivente: solo l'essere vivente della Chiesa, che possiede la Scrittura come libro proprio e lo porta con sé attraverso i secoli, è capace d'attestare quali siano la sua essenza e la sua estensione; quest'essenza e quest'estensione, infatti, per farsi conoscere non hanno altro mezzo che la testimonianza vivente della Chiesa"[15].
Il fatto che la conferenza rahneriana alla quale sto richiamandomi (10 febbr. 1963), precede di ben due anni la promulgazione della Costituzione dogmatica sulla divina Rivelazione (18 nov. 1965), dimostra a chiare note qual enorme influsso esercitasse K. Rahner all'esterno ed all'interno del Concilio. La "reductio ad unum" di Scrittura e Tradizione, come ben si vede, porta il suo inconfondibile timbro ed appartien al suo copyright; a sua volta la Tradizione vivente ebbe in lui uno dei massimi assertori.
c) Ma K. Rahner non era così sprovveduto di logica e di storia, da non rendersi conto che il solo lemma tradizione richiama il Magistero della Chiesa. Né era così sordo-muto, da non risponder al quesito se la Tradizione sia più ampia della Scrittura e se l'una e l'altra rappresentino "due correnti parallele ed indipendenti, che ci apportano contenuti di fede materialmente differenti"[16]. Per predisporre la sua risposta, s'appella al Magistero ecclesiastico come norma non sostituibile dalla Scrittura e senza la quale "l'ispirazione e il canone della Scrittura non vengon più in alcun modo garantiti"[17]. Queste parole parrebbero una decisa virata a favore e della Tradizione e, soprattutto, del Magistero. Non lo sono. Chiesa e Magistero han qui qualcosa di fatalistico e d'imprescindibile, costituiscon un "aut/aut": o li affermi, o privi la tua fede del supporto che la garantisce. Nessun richiamo, infatti, alla fondazione biblica del Magistero, reticenza assoluta sull'istituzione della Chiesa da parte di Cristo, sulla "potestas clavium", sulla missione che per divina disposizione caratterizzerà la storia e l'azione della Chiesa nel mondo. Il sì alla Chiesa ed al suo Magistero è imposto dalla necessità, ma non disposto ed istituito da Cristo.
Quanto poi all'annoso problema della sufficienza scritturistica, affermata o per assorbir in essa la Tradizione o per non riconoscer a questa alcuno spazio vitale e negarne quindi sia la compresenza normativa insieme con la Scrittura, sia la possibilità stessa di dedurne nuovi contenuti dottrinali, Rahner non ammette ondeggiamenti: tutto è Scrittura e tutto è in essa[18]. Ovviamente, per dar la misura del suo acume critico, tale da suggerir il perfin al divino Direttore d'orchestra, non manca il suo "sì, ma": "se[19] Dio ha effettivamente operato il miracolo di una ispirazione scritturistica e di una Scrittura divina, egli non può sottrarre certe verità della Chiesa alla testimonianza della Scrittura, ad eccezione della testimonianza concernente questo stesso miracolo, dal momento che questa Scrittura egli l'ha ispirata precisamente perché fosse, per le generazioni future, la testimone della verità della Chiesa apostolica"[20]. Dopo una bella boccata d'aria per riprender quota, cerco di capire: c'è un "sic/et non" che attanaglia anche la libertà di Dio; supposto che la Scrittura sia opera sua a favore delle generazioni venture, sarebbe un assurdo se Dio non ne avesse fatto il contenitore di tutta la verità; ma poiché questa è destinata alle generazioni future, non è assurdo che manchi nella Scrittura la testimonianza concernente il miracolo della Scrittura stessa. Sì, cerco di capire, ma non ci riesco. Non capisco perché Dio avrebbe dovuto affidare la verità salutare solamente alla Scrittura; non c'è bisogno d'abbracciare la tesi di Karl Barth riguardante la divina libertà di rivelarsi "in modo dissimulato, non invisibile ma indiretto", attraverso tante mediazioni, perfino attraverso il comunismo ateo[21]; anche al di fuori di questi paradossi, nessuno, nemmeno "il massimo ispiratore del Concilio" dovrebbe scandalizzarsi se Dio avesse deciso di rivelarsi anche attraverso la Tradizione.
d) Considero una vera grazia, fatta dal Signore alla sua Chiesa, quella d'un abbastanza diffuso movimento di ripulsa dell'eredità rahneriana. Il movimento può vantar addirittura come una delle sue prime mosse quella che fa capo al Pontefice f. r., il quale sconfessò nel 1978 l'acritica apertura rahneriana ad ogni moderno giudizio contro i contenuti dottrinali della Tradizione[22].
 

1.3 - Dissonante non fu soltanto Rahner. E mi spiace di non poter fare una completa rassegna delle dissonanze, se non altro per aprire gli occhi a chi li avesse ancora chiusi. Fra i più "stonati", dagli anni del preconcilio a gran parte di quelli postconciliari, dovemmo ascoltare il domenicano di Nimega, p. Edward Schillebeeckx, recentemente scomparso. Chi ricorda il non felicemente famoso Catechismo Olandese - un vento di fronda che agitò la vigilia del Vaticano II e penetrò all'interno dell'aula conciliare scompaginando gli orientamenti che con fatica andavan delineandosi - ricorderà pure la parte avuta dal detto domenicano nella redazione di quel catechismo.
a) Tuttavia, per introdurre ed orientar un po' d'attenzione critica allo sconcertante professore di Nimega, mi riferirò anzitutto ad un articolo di J. Galot, dedicato almen in parte a lui [23], del quale per vario tempo fu molto celebrato e contestato un saggio di cristologia sacramentale[24]. La cristologia è infatti trattata in funzione della teologia sacramentaria. E non è una cristologia tradizionale. Un'idea fortemente sottolineata è che l'uomo Gesù, "intimamente unito al Padre per la sua dipendenza piena d'amore", abbia vissuto "in una situazione d' allontanamento da Dio". Il fatto d'esser carne (sarx) escludeva in lui la presenza dello Spirito, "perché Pneuma e sarx sono in conflitto"; ed è questa la ragione per la quale "durante la vita terrena di Gesù «non vi era ancora lo Spirito - come dice Gv 7,39 - perché il Cristo non era stato ancora glorificato»".Il chiarimento s'avrà sulla croce, quando, "dalle profondità della situazione di sventura - de profundis clamavi a te, Domine - risuonò il grido d'un uomo che si sa(peva) indubbiamente unito al Padre nel più profondo del suo cuore umano in un amore intimo, ma che vive(va) in piena realtà anche l'allontanamento da Dio...Egli deve passare attraverso l'importanza di quest'allontanamento da Dio per andare alla glorificazione che Dio gli darà"[25].
Mi fermo qui. I lineamenti cristologici qui delineati metton in evidenza lo stridore tra l'immagine "schillebeeckxiana" di Cristo e quella del dogma calcedonense e, con esso, di tutta la Tradizione cattolica. Nelle parole di Schillebeeckx non si coglie più nemmeno una lontanissima reminiscenza del Simbolo con cui Calcedonia sottolineò l'armonia dei due mondi - l'umano ed il divino - nei quali Cristo si muove perfettamente a suo agio, e dichiarò l'incarnato Verbo del Padre "perfectum in deitate, eundem perfectum in humanitate, Deum verum et hominem verum, consubstantialem Patri secundum deitatem et consubstantialem nobis secundum humanitatem". Nulla, nell'allontanato da Dio, ritroviamo delle due nature "inconfuse, immutabiliter, indivise, inseparabiliter" congiunte, secondo il dettato calcedonense, nell'ineffabile mistero dell'unione ipostatica[26].
b) Ciò chiarito, dirò che pur in altre pubblicazioni di Schillebeeckx si coglie con chiarezza inconfondibile il distacco dalla Tradizione, se non anche il disprezzo di essa, perfino quando non ne parla direttamente. Volendo, in effetti, far capire che l'allontanarsi dalla Chiesa come fatto sociologico e statistico non è indice di scristianizzazione, ne scorge il motivo, che chiama teologico, nella "non vivibilità" delle vecchie forme ecclesiastiche, chiedendone l'aggiornamento[27]. A proposito d'aggiornamento, contro l'insopportabile vecchiume auspica "una visione teologica continuamente rinnovata, che rende possibile il libero e tuttavia ortodosso trattamento del dogma". Auspica del pari tanta umiltà da parte della Chiesa da "riconoscere che la teologia scolastica è responsabile della povertà di gran parte della predicazione"[28]: la qual cosa, per un domenicano, è proprio il colmo. Ma il colmo è pure quell'atteggiarsi a difensore della pura tradizione "dei dogmi, del mistero inesauribile di Dio e del suo disegno di salvezza" mediante un "senso illativo" della divina Rivelazione, da illustrare come dono a noi uomini d'oggi, così come gli apostoli la illustraron ai loro contemporanei[29].
Con la Chiesa Schillebeeckx non è affatto tenero. La dichiara un cumulo di peccati, specie "nella concreta forma in cui essa si manifesta (la Chiesa di Roma)...responsabile d'ogni sorta d'errori, d'occasioni storiche perdute, di mancanze di comprensione"[30]. Per questo vorrebbe che non si facesse "grande d' un trionfale possesso della verità", quasi dimenticando che si è tutti, anche la Chiesa, alla ricerca di essa; ciò nonostante, la Chiesa "ha fede, con timore e tremore, nella sua indefettibilità dinamica, di cui la storia della Chiesa sedimenta nel tempo gli elementi essenziali, che però son continuamente ripresi in una problematica sempre nuova"[31]. Le parole, almeno qui, son chiare: non c'è, nella storia e nell'attività della Chiesa, un nove con esclusione di nova, c'è il contrario: gli elementi sedimentati nella sua storia son generatori di problematiche prima sconosciute, risolte non già dai valori della sua Tradizione, analogicamente applicati, ma "dalla grazia di Dio che è remissione e forza rinnovatrice a partire dall'interno"[32]. Pertanto, ad ogni svolta di questo turbinio ch'è la storia, la Chiesa, pressata interiormente dalla grazia, presenta sempre un volto nuovo. E' sempre una nuova realtà. Non il suo ieri, ma il suo oggi che predispone il suo domani. "Può peccare di negligenza (più) che di troppa fretta, d'aggiornamento troppo lento (più) che d'adattamento troppo affrettato"[33]. Ma di per sé è novità.
La Chiesa, insomma, se nel metter mano all'aratro non drizza lo sguardo in avanti (cf Lc 9,62), "corre il grave rischio di restar indietro, come uno strano relitto d'un'epoca remota": il rischio di rifiutare la spinta della grazia a reinventarsi, a "mettersi in sincronismo con i tempi", a "sbarazzarsi degli anacronismi nella sua concreta manifestazione", insomma a "diventar odierna"[34]. A tal fine occorre, secondo il celebrato e discusso ed inqualificabile domenicano di Nimega, non già riportar a galla i relitti del passato, anche se presentati come tradizione vivente, bensì dimostrare che questa tradizione è davvero vivente solo se si rende "funzionante la Chiesa nell'immagine odierna dell'uomo e del mondo, nella vita reale dell'uomo del momento presente". Per chi non avesse capito, o fosse poco incline a lasciarsi convincere da quanto sopra, ecco come - in modo cioè radicale ed esplicito - Schillebeeckx disvela il suo pensiero: "Noi non dobbiamo immaginare (la Buona Novella) come se la Chiesa avesse in custodia una precisa presentazione della Fede, dipinta una volta per sempre, che ora dev'essere soltanto restaurata ed incorniciata, per ragioni tattiche e pedagogiche, perché abbia una maggiore forza d'attrazione". Al contrario, dev'esser "continuamente rinnovata, e nuova nell'integro messaggio evangelico"[35].
Superflua ogni altra citazione.
 

1.4 - Un quadro di teologia contemporanea non può negar un po' di spazio anche a colui che fu definito, non senza un'evidente esagerazione, l'enfant terrible de la Théologie catholique. Alludo a Hans Küng. Fin dal suo esordio con Rechtfertigung del 1957 e soprattutto in seguito, ci fu chi lo portò alle stelle e chi gli dette sulla voce[36]. La ragione è ch'egli incarna lo spirito illuminista: gl' "illuminati" d'oggi l'adorano; gli altri gridan allo scandalo.
a) La sua posizione sul nostro problema di fondo è conseguente: nessun sentimentalismo e nessun cedimento, se mai occhi aperti al "sol dell'avvenire". Con un accorgimento, però: quello di tutt'i novatori: riscoprir il vero passato, per "levigarlo" a dovere e farlo risplendere di luce nuova, attuale, libera da tutte le pastoie della c. d. tradizione. Non si può dire ch'egli non conosca le fonti; anzi, le ha ben presenti, ma per un unico scopo: emanciparle da "tutte le costrizioni dottrinali della Chiesa". Tanto in Die Kirche[37], quanto in Unfehlbar? Eine Frage[38] - ma sostanzialmente le posizioni eran già delineate in precedenti pubblicazioni[39] - considera gl'interventi dottrinali della Chiesa durante i secoli com'espressione di giudizi contingenti, culturalmente datati e privi di validità universale nel tempo e nello spazio. La qual cosa spoglia la Tradizione di normatività e gli stessi asserti dogmatici d'ogni pretesa d'infallibilità. Küng li considera addirittura soggetti all'errore e quindi riformabili e doverosamente aggiornabili.
Le conseguenze, con riferimento alla Tradizione ecclesiastica, son per così dire automatiche: le sue fonti e le più antiche testimonianze non posson che esser "interpretate, commentate, esplicitate ed applicate a partire dalle diverse situazioni ecclesiastiche"[40]. Il non farlo espone la Chiesa al suo fallimento come apparato di potere, come esaltazione d'un organismo sclerotizzato dal suo stesso tradizionalismo, come difesa d'un vertice gerarchico di stampo secolare, come riproposta d'un culto di tradizione barocca nonché d'un ritualismo non-evangelico[41]. Si noti che l'attacco alla Tradizione non è rivolto soltanto contro la Chiesa cattolica; coinvolge in pari misura l'Ortodossia, le chiese protestanti e quelle "libere"[42]. Con la pretesa di salvaguardar il puro Evangelo, H. Küng dà un colpo di grazia all'ininterrotta trasmissione di esso.
c) Né si pensi che l'attacco si fermi alla Tradizione: va diretto al suo contenuto principale ch'è anche il suo vero soggetto, il suo protagonista: il Signore Gesù, la sua parola, la sua opera. Purtroppo, l'attacco è devastante. Una negazione - fra le tante - dà inizio allo smantellamento cristologico: il Cristo niceno-costantinopolitano contraffazione di quello del NT[43]. Secondo l'evangelo, l'esser cristiani dipende dall'adesione non già ad un dogma o ad una cristologia, ma alla persona di Cristo. E più precisamente a quell'uomo di Nazareth, "che è l'effettiva rivelazione dell'unico vero Dio (die des einen wahren Gottes wirkliche Offenbarung)". A chi si domandi come ed in che senso, Küng risponde: "Non in senso fisico-materiale, ma nemmeno in un senso irreale, bensì nello Spirito, nel modo d'esser presente dello Spirito (in der Daseinsweise des Geistes), come realtà spirituale (als geistige Wirklichkeit)[44]. E' di moda, oggi, l'uscire da una difficoltà dialettica ricorrendo allo "Spirito" ed ovviamente tacendo "Santo": se ne ha qui un esempio. Uno dei tanti, che forse son solo dei modi di dire. Pertanto, tutte le dichiarazioni relative alla figliolanza divina di Cristo, alla sua pre-esistenza, alla sua presenza creatrice, alla sua azione redentrice, per questo osannato campione della teologia postconciliare son semplici espressioni dell'unicità, originalità ed insuperabile qualità del messaggio di Cristo. Il quale, dunque, non è Dio, non Figlio di Dio, ma suo rappresentante e suo rivelatore[45]. In ultim'analisi, anche Küng, un po' come tutt'i campioni di razza, ha una sua coerenza: nel suo Cristo è assolutamente irriconoscibile quello niceno-costantinopolitano.
Non ci vuol molto a capire l'intento di questa reinterpretazione del Signore Gesù. La parola di Dio orale e scritta l'aveva proposto alla Fede come vero Dio e vero uomo; Küng lo spoglia d'ogni sua consistenza divina e lo presenta nella sua nuda umanità[46]. Con Cristo, a farne le spese è pure la sua santissima Madre, detta anche Madre di Dio solo per una discutibilissima e problematica evoluzione storica[47]. In realtà, Maria è semplicemente la madre di Gesù e tale maternità ne relega la verginità, fra l'altro estranea all'Evangelo[48], nel mondo dei sogni. La reinterpretazione è tanto radicale e dimensionata sull'uomo comune che Küng si chiede: è oggi ragionevole che un uomo voglia farsi Dio?[49] Ed ecco, ancora, l'illuminista che bultmannianamente spiega come ciò possa esser avvenuto: Cristo è solo il prodotto della prima comunità cristiana, non Dio fattosi uomo ma un uomo che la Fede nascente innalza alle altezze di Dio e consegna alla Tradizione ecclesiastica come una certezza inoppugnabile.
 

1.5 - Se volessi dire sia pur poco d'ogni novatore che abbia fatto strame della Tradizione apostolica, dovrei non scriver una veloce e limitata rassegna, ma riempire di scritti varie scaffalature d'una biblioteca. Devo perciò passar sotto silenzio non pochi personaggi, anche importanti, per concluder con uno, a mio avviso di calibro veramente superiore. Ciò non toglie che, p. es., un H. de Lubac o un D. Chenu non reggan al confronto; la mia è una scelta che m'impedisce di dir tutto di tutti; ma resta il fatto che tutti, ognuno a suo modo, si rivelan legati ad un effetto comune: la disgregazione dell'identità cattolica, dovuta ad un'insostenibile reinterpretazione delle fonti cristiane, con conseguente alterazione dei dati storici, relativizzazione della parola di Dio orale e scritta e una rilettura della Tradizione apostolica sullo sfondo dello storicismo hegeliano e del relativismo dottrinale.
Concludo, dunque, la mia carrellata con uno sguardo ad un teologo e storico della teologia indubbiamente innovatore, che peraltro ebbe sempre vivo il senso della Tradizione e dedicò ad essa una delle sue opere più celebri: Y. M.-J. Congar.
a) Si tratta del ben noto saggio storico La Tradition et les Traditions[50], che va alla ricerca del concetto di Tradizione nelle varie epoche e confessioni cristiane. Con un procedimento, al quale anche altri (p. es. Deneffe, Ranft, Geiselmann, Beumer) si son ispirati, egli dà la misura del passaggio da un'idea di Tradizione ad altre, attraverso un'analisi attenta anche alle sfumature ed estesa alla patristica orientale ed occidentale, alla teologia medievale, alla Riforma protestante nonché a quella cattolica, per poi portarsi fin alle posizioni più nuove e moderne. Ossia, al problema della Tradizione, ch'è poi quello d'un'eredità costituitasi oltre venti secoli fa e pervenuta ai nostri giorni.
Quella di Y. Congar è l'opera d'un moderno, corifeo dell'avanguardia conciliare, che tuttavia raddrizza le devianze dei suoi compagni di viaggio. A me pare che abbia provveduto, forse solo in parte, al detto raddrizzamento, ripristinando il dato inoppugnabile di verità salutari scritturisticamente non documentate. Non importa se avessero ragione i teologi antichi ad usare traditio solo per codeste verità, o abbian invece ragione i più moderni ad inserire nella tradizione tutte le verità rivelate, prescindendo dal modo della loro trasmissione. L'importante è il riconoscimento di due modi distinti.
Congar è convinto che proprio questo sia uno dei meriti del Tridentino, il suo passaggio dal "partim/partim" all' "et/et": due prospettive, cioè, non alternative in assoluto, ma ambedue in tanto valide in quanto testimoniano, l'una e l'altra, un duplice manifestarsi della verità rivelata. Solo che, credendo d'interpretar il Tridentino, alla teoria delle due fonti Congar sostituisce quella dei due modi. Su una certa dualità, in ultim'analisi, i Padri eran tutti d'accordo; Congar lo desume da vari indizi e soprattutto dal fatto che, anche dopo la soppressione del "partim/partim", la posizione dottrinale del Tridentino - si trattasse di due fonti o di due modi - restò inalterata. Anche se convinto che la dottrina tridentina alludesse al passaggio della Rivelazione attraverso due forme o modi distinti, si disse dell'avviso che, nell'estimazione comune anche dopo il Concilio, le due fonti rimasero dottrina conciliare. Tant'è vero che tale dottrina non solo non fu mai formalmente superata, ma, almeno nella sua sostanza, restò inalterata in tutta l'epoca posttridentina ed arrivò in pratica fin alla vigilia del Vaticano II. E' quanto han dimostrato tanto Geiselmann quanto Tavard[51] oltre ad altri provati autori, sulla base degl'interventi dei Padri tridentini e dei grandi teologi operanti dietro le loro spalle[52].
Di non minor importanza, come rileva Y. Congar, è la giustificazione teologica delle tradizioni che, sia durante sia dopo il Tridentino, si basava sulla reticenza almeno materiale della Sacra Scrittura intorno ad alcune verità[53]. Prendeva campo, intanto, uno spostamento d'accento e d'attenzione. Stapelton, il Bellarmino, lo stesso sant'Ignazio di Loyola, cui si deve l'espressione "Chiesa gerarchica"[54], avevan fatto scuola: lo spostamento trasferiva l'attenzione dalla Traditio del passato, che ovviamente nulla perdeva della sua importanza e normatività, all' attualizzazione di essa in ogni autentico intervento del Magistero ecclesiastico[55].
b) Lo spostamento di cui sopra portava ad un concetto della Tradizione come insegnamento del Magistero, anche se per secoli, da sant'Ireneo e Tertulliano in poi, l'autorità della Chiesa era sempre stata collegata alla ricezione-trasmissione del dato tradizionale. Il problema d'una tradizione-soggetto affiorava dalla stessa tradizione-oggetto, ma né il Tridentino usò la parola Magistero, né il papato, prima di Gregorio XVI e Pio IX, aveva "esercitato il magistero attivo delle definizioni dogmatiche e della formulazione costante della dottrina cattolica"[56]. Con F. Kattenbusch[57], Y. Congar osserva la diversa situazione creatasi al riguardo, tra oriente ed occidente, quando per l'oriente Tradizione significò presenza normativa dei primi sette Concili ecumenici; per l'occidente significò pure l'autorità che riproponeva qui ed ora quella normatività. Il fermento d'idee che metteva a fuoco lati e sfumature sempre nuove d'un problema antico, era alimentato dai rispettivi indirizzi di ben note scuole teologiche: il Congar non solo le ha presenti, ma ne ricerca la genesi storica, l'ispirazione di fondo, le metodologie e mette a confronto i risultati conseguiti fin alla fase antecedente il Vaticano II[58]. Dall'accennata diversa situazione derivava, facendosi strada sempre più decisamente, la distinzione fra traditio passiva (id quod traditur, il sacro deposito) e traditio activa (quae vel qui tradit, l'autorità che trasmette il sacro deposito). All'una si riferiva la "teologia positiva delle fonti", all'altra "la teologia positiva del magistero"[59]. Congar accenna anche ad una ben nota frase, tante volte equivocata e riferita con accentuazioni aggravanti o attenuanti, che il beato Pio IX rivolse un giorno al card. Guidi: "La Tradizione son io"[60]. Che il settarismo abbia usato questa frase a giustificazione della sua lotta antipïana è un dato di fatto, ma è anche la dimostrazione lapalissiana della sua ignoranza teologica. Dietro quella frase c'era sia G. Perrone, sia la Scuola Romana alla quale il Perrone apparteneva e che personalizzava nel Papa la traditio activa.
Un'ultima osservazione, che Y. Congar riprende da J. Salaverri[61], relativa al rapporto fra Tradizione e Magistero: secondo il Tridentino, il Magistero ha nella Tradizione (passiva, o oggettiva) il deposito da custodire, il limite ed insieme la norma del suo insegnamento. A questo riguardo, con ampia conoscenza delle fonti e della letteratura specifica, Congar dimostra che il Magistero non può definire quanto non rientri nel deposito delle verità rivelate (scritte o oralmente trasmesse), che queste costituiscono la regula regulans fidem Ecclesiae, che il Magistero è invece la regula regulata dalla Tradizione stessa[62] e che, pertanto, non ha autorità sul fatto della rivelazione, di cui può solo custodire ed interpretar i contenuti scritti o orali.
Mi sembra proprio che l'analisi storico-teologica della Tradizione da parte di Y.M.-Congar ridimensioni abbastanza le segnalate devianze e perfino le riduca al silenzio. Per breve tempo. Nell'aula del Vaticano II ripresero il sopravvento e lo stesso Congar vi si trovò coinvolto.
                            
2 - La Fraternità di san Pio X - Si tratta d'un'istituzione talmente legata al valore della Tradizione, che il tacerne in un'opera come la presente sarebbe una colpevole "negligenza". La "diligenza" che ne parla, ovviamente, né comporta né significa lo schierarsi a suo favore. Anche per me essa rimane quello che è e quale la volle il suo fondatore, il ben noto Vescovo Marcel Lefebvre: una pubblica contestazione di quasi tutte le innovazioni del Vaticano II, un inquadramento irriducibile nei ranghi della Tradizione apostolica a difesa di essa, un'espressione di sensibilità cattolica non solo in netta dissonanza con la Chiesa cattolica ufficiale, ma da questa, almeno fin ad oggi, dichiarata priva di giurisdizione e d'ogni riconoscimento giuridico all'interno della Chiesa.
Così s'espresse il decreto della Congregazione dei Vescovi in data 21 gennaio 2009, con il quale S. S. Benedetto XVI rimosse la scomunica lanciata dal suo predecessore nel 1988 contro quattro membri della detta Fraternità, ai quali Mons. Lefebvre aveva conferito la consacrazione episcopale contro la volontà della Santa Sede.
Così il 4 febbraio del 2009 aveva precisato una nota della Segreteria di Stato: nessun riconoscimento giuridico.
E così lo stesso Pontefice Benedetto XVI ripeté nella lettera del 10 marzo 2009 ai vescovi della Chiesa cattolica[63], spiegando le ragioni dottrinali che stanno alla base sia del suo provvedimento di clemenza, sia della situazione disciplinare che il detto provvedimento non aveva minimamente cambiato. Bisogna distinguere, diceva il Papa, "il livello disciplinare da quello dottrinale", poiché da questo dipende se la Fraternità non ha una posizione canonica nella Chiesa e non può, quindi, legittimamente esercitare nessun ministero ecclesiastico. In altri termini, perché la Fraternità san Pio X sia a tutti gli effetti Chiesa cattolica, occorre il ripristino della sua piena comunione con essa. Se poi la mancanza d'un tale ripristino avesse per effetto il persistere della Fraternità in quello stato di "scisma" che qualcuno collega con l'illegittima ordinazione del 1988, allora si potrebbe pensare che tutt'i preti ordinati dai quattro vescovi ora sollevati dalla scomunica son a loro volta non scomunicati ma illecitamente ordinati e forse anche sospesi "a divinis". Più ingarbugliata di così la situazione non potrebb'essere.
 

2.1 - Una delle ragioni per le quali la situazione è e rimane ingarbugliata fu messa in evidenza da Giovanni Paolo II nel documento con cui scomunicava Mons. Lefebvre: il "motuproprio" Ecclesia Dei afflicta che, al § 4, diceva: alla base di "quest'atto scismatico" sta "una nozione incompleta e contraddittoria di Tradizione...che non tiene nel debito conto il carattere vivente della Tradizione"[64]. Dunque, qui il papa stesso parlò di scisma e riportò tutto al comun denominatore della Tradizione vivente. Il giudizio non poteva esser più pesante. Né con esso si concorse a far un po' di chiarezza.
Per documentare quale sia il vero concetto di Tradizione al quale S. E. Mons. Lefebvre legò la sua Fraternità, bisognerà spender qualche breve parola su di essa. Il suo scopo principale, secondo i suoi statuti del 1970, è la formazione sacerdotale; non a caso nacque in quell'anno ad Ecône, la località svizzera che dette il nome al primo e più famoso seminario della Fraternità[65]. I seminari si son poi moltiplicati in tutt'il mondo e dovunque all'insegna d'un'unica e medesima linea: "le sacerdoce et tout ce qui s'y rapporte".
Non pochi hanno interpretato codeste parole com'espressione d'integrismo. La Fraternità, a sua volta, considera "ingiuriosa" una tale interpretazione[66]. Quasi ignorando l'ingiuria, la Fraternità continua l'opera formativa dei suoi candidati al sacerdozio richiedendone effettivamente l'adesione a tutta la dottrina e alla prassi liturgica in vigore prima del Vaticano II[67]. Una tale adesione, se per un verso comporta una costante ed esclusiva dipendenza della Fraternità san Pio X dalla secolare Tradizione della Chiesa, per un altro è un no deciso ed irrevocabile alle innovazioni introdotte dal Vaticano II, o in nome di esso, e giustificate dal loro inquadramento nella tradizione c. d. vivente. Pertanto, quando papa Giovanni Paolo II contrappone alla tradizione vivente "la nozione incompleta e contraddittoria di tradizione" della Fraternità san Pio X, non condanna come anticonciliare soltanto la Fraternità, ma anche la Tradizione cui essa s'ispira. Il che è già grave. Non meno dello "scisma" lamentato e condannato. Ma più grave ancora è la voragine scavata all'interno della Chiesa dalla pretesa d'imporre a tutti un Concilio che non fu e non volle esser magisteriale e che di fatto, in forma non magisteriale, pose le premesse d'alcuni sganciamenti dal magistero tradizionale - la cosa solleva non poca meraviglia, perché in più d'un contesto il Vaticano II dichiara di collegarsi con la Tradizione di sempre nell'atto stesso di proclamar innovazioni inconciliabili con tale Tradizione -. Per quanto mi riguarda, son certo che se si fosse evitata una tale radicalizzazione e si fosse promossa non la superficiale ed acritica celebrazione del Vaticano II, ma un'approfondita analisi storica, esegetica, teologica, liturgica, canonica dei suoi documenti, non ci sarebbero state le divisioni che ci sono state e forse una pattuglia così compatta com'è la Fraternità san Pio X avrebbe potuto esser un coefficiente di crescita ecclesiale nella verità e nella comunione. Invece!
 

2.2 - Invece la voragine è sotto gli occhi di tutti e ci si chiede come uscirne. Per uscirne, occorre conoscerne le cause. La Tradizione, che i figli di Lefebvre avrebbero "incompleta e contraddittoria", è una di esse. Cerchiamo di capirci qualcosa.
Introducendo una nuova edizione degli statuti da lui stesso redatti per la sua Fraternità, Mons. Lefebvre il 20 marzo 1990 collegò la sua opera, in quanto "oeuvre de restauration du sacerdoce catholique" e per questo "oeuvre d'Eglise", ad un disegno della divina Provvidenza "afin de préserver les trésors que Jésus-Christ a confiés à son Eglise, la foi dans son intégrité, la grâce divine par son Sacrifice et ses sacrements, et les pasteurs destinés de ces trésors de vie divine"[68]. Se si tenti d'inglobare le finalità sopra descritte in una sola parola, l'unica che faccia al caso è "Tradizione".
In effetti, soltanto nella Tradizione l'opera sopra indicata può esser "un'opera della Chiesa", capace di restaurar "il sacerdozio cattolico" in conformità al suo statuto ontologico, che una concezione sociologica avrebbe fatalmente compromesso, e di ripristinare l' "integrità della Fede", le fonti della grazia - Sacrificio eucaristico e sacramenti - e l'autentico governo della Chiesa secondo la sua triplice competenza dottrinale, santificatrice e disciplinare. Una Tradizione, però, capace di codesta triplice finalità si trova, nel giudizio di Mons. Lefebvre, contraddetta se non anche annullata dal no oppostole dal Vaticano II e dal postconcilio. Contro un no che s'ammanta di validità conciliare, l'anziano ma indomito presule formulò a nome di tutta la sua Fraternità il suo Credo: "Nous adhérons de tout coeur, de toute notre âme à la Rome catholique, gardienne de la foi catholique et des traditions nécessaires au maintien de cette foi...Nous refusons par contre...de suivre la Rome de tendence néo-moderniste et néo-protestante qui s'est manifestée clairement dans le concile Vatican II et après le concile dans les réformes qui en sont issues"[69].
Evidente, in questo giudizio, il contrapporsi di due "Rome": quella cattolica e quella neomodernista e neoprotestante. Chiedo: perché neomodernista e neoprotestante? La risposta rimbalza immediata di libro in libro e di dichiarazione in dichiarazione: perché l'autentico volto della Chiesa di Cristo è stato sfigurato da un "grande tradimento": la resa a discrezione nelle mani del liberalismo tante volte condannato ed ora purtroppo impalmato in un diabolico connubio.
Non è la prima volta che si sente parlare di cattolicesimo liberale; tutta la seconda metà del diciannovesimo secolo n'è piena. Oggi, il connubio fra il diavolo e l'acqua santa s'è rinnovato. A dispetto di tutta la Tradizione, nel giudizio della Fraternità, Concilio e postconcilio avrebbero snaturato l'in-sé della Rivelazione cristiana e della Chiesa che l'ha in custodia, integrando l'una e l'altra nella realtà mondana, nella sua cultura, nelle sue lotte, nelle sue aspirazioni, nelle sue conquiste. In breve: facendone un'espressione dell'ideale liberale[70]. Lefebvre n'era amaramente convinto. E' pertanto opportuno che ci si chieda che cosa intendesse per liberalismo.
a) Un papa su tutti s'impone come una diga contro il dilagare limaccioso e mortifero dell'idea liberale: il beato Pio IX. Discorsi occasionali, encicliche, Sillabo: è un discorso univoco, nell'intento di bloccare l' "onda anomala" del liberalismo cattolico, dal quale Pio IX vede travolti anche i buoni, ammaliati ormai da un fascinoso ideale d'indipendenza, di progresso e di civiltà che troverebbe un ostacolo insormontabile nella Tradizione della Chiesa. Una tale Tradizione sarebbe, infatti, fissismo assoluto, intolleranza e confusione intellettuale, là dove il liberalismo cattolico sarebbe esattamente il contrario: apertura ideologica, tolleranza e libertà religiosa, compresenza d'idee e di fedi. Se entro certi limiti, naturali e soprannaturali, il riconoscimento d'alcuni diritti alle minoranze politico-religiose è un dovere di coscienza, di carità e di prudenza, il porsi in qualunque modo contro la prospettiva evangelica dell'universale salvezza (At 13,47), il rifiuto teorico-pratico dell' "unum ovile et unus pastor" (Gv 10,16) dà ragione a chi definì il liberalismo un peccato[71] con stravolgimento dell'ordine delle cose, dei concetti, della verità: di quella naturale e di quella soprannaturale. Considerato nel cattolico, il liberalismo assume, a detta di L. Billot, "una sola nota caratteristica: quella della perfetta ed assoluta incoerenza"[72].
b) Mons. Lefebvre individua una tale incoerenza nel mancato rispetto della Tradizione, al cui posto il cattolico liberale pone la filosofia relativista della mobilità e del divenire, il soggettivismo o indipendenza dell'intelligenza dal suo oggetto, della volontà dall'intelligenza, della coscienza dalla legge, dell'anarchismo dal primato della ragione, del corpo dall'anima, del presente dal passato, dell'individuo dalla società, "d'ou le mépris de la tradition"[73].
Sul piano soprannaturale, poi, Lefebvre rileva che il liberalismo oppone alla Fede, alla scienza della Fede, al Magistero e alla sua Tradizione il razionalismo, il naturalismo, il laicismo e l'indifferentismo[74]; e che, tutto giustificando come fedeltà allo "spirito" del Vaticano II, o più esattamente alla sua ispirazione pastorale, il liberalismo gli sacrifica lo "spirito missionario", affogandolo nel "mare magnum" della ricerca e del dialogo, esaltando i valori delle altre religioni e consegnandosi praticamente al deprecato sincretismo religioso[75]. Infine, per dimostrare quanto lo "spirito" del Concilio si sia allontanato dalla vera e duratura Tradizione, mette a confronto alcuni enunciati che s'elidon a vicenda, traendoli dalla Quanta cura del beato Pio IX e dai documenti del Vaticano II: dov'era risuonato il no del preveggente Pio IX risuona oggi il si dei documenti conciliari. Lo stridore delle due antitetiche posizioni è tale che perfino un Congar l'avvertì e ne tentò maldestramente la composizione[76]; qualcun altro, nella riconciliazione della Chiesa col mondo e coi diritti dell'uomo proclamati dalla rivoluzione francese, vide addirittura un "Antisillabo"[77].
c) Tentando ora una sintesi delle posizioni difese dall'Ecc.mo Mons. Lefebvre a favore della Tradizione, e senz'alcuna pretesa d'esaurirne il discorso, a me pare che l'urto si stabilisca tra:
- una formazione sacerdotale che affonda i suoi principi nella Tradizione ecclesiastica e nei valori soprannaturali della divina Rivelazione; ed una formazione sacerdotale aperta al cangiante orizzonte della cultura in perenne divenire;
- una liturgia che ha certamente un punto di forza nella c. d. Messa tradizionale, passando però dalla Messa alla dottrina e da questa alla riaffermazione della regalità sociale di N. S. Gesù Cristo; ed una liturgia antropocentrica e sociologica, dove il collettivo prevale sul valore del singolo, la preghiera ignora il momento latreutico, l'assemblea diventa l'attore principale e Dio cede il posto all'uomo;
- una libertà che ripete la sua "liberazione" dal decalogo, dai precetti della Chiesa, dagli obblighi del proprio stato, e che non può sottrarsi al dovere di conoscere amare servire Dio; ed una libertà che omologa i culti, mette il silenziatore alla legge di Dio, disimpegna i singoli e la società sul piano etico e religioso e lascia alla sola coscienza la soluzione di tutt'i problemi;
- una teologia che attinge i suoi contenuti dalle sue fonti specifiche (la Rivelazione-la Tradizione-il Magistero-la patristica-la liturgia); ed una teologia che apre i suoi battenti, un giorno sì e l'altro pure, a tutte le emergenze culturali del momento, anche a quelle in stridente antitesi con le fonti predette, in una spasmodica autoriforma che lasci spazio al pluralismo degl'influssi filosofici, conformandosi ora a questo ora a quello;
- una soteriologia strettamente collegata con la persona e l'opera redentrice del Verbo incarnato, l'azione dello Spirito Santo applicativa dei meriti del Redentore, l'intervento sacramentale della Chiesa e la cooperazione dei singoli battezzati; ed una soteriologia che guarda all'unità del genere umano come conseguenza dell'incarnazione del Verbo, nel quale (cf GS 22) ogni uomo trova la sua stessa identificazione;
- un'ecclesiologia che identifica la Chiesa nel Corpo mistico di Cristo e riconosce nella presenza sacramentale di Lui il segreto vitale dell'essere e dell'agire ecclesiale, del suo ringiovanirsi nel trascorrere del tempo, del suo irrobustirsi anche a fronte delle più cruente persecuzioni, del suo unificarsi nonostante gli scismi e le defezioni, della sua santità santificatrice nonostante il peccato dei suoi figli; ed un'ecclesiologia che considera la Chiesa cattolica come una componente della Chiesa di Cristo, unitamente ad altre componenti, che in questa fantomatica Chiesa di Cristo addormenta lo spirito missionario, dialoga ma non evangelizza e soprattutto rinunzia al proselitismo come se fosse un peccato mortale;
- una Messa-sacrificio espiatorio, che celebra il mistero della passione morte e risurrezione di Cristo ri-presentandone sacramentalmente la redenzione satisfattoria; ed una Messa dove il prete è solo presidente ed ognuno è parte "attiva" del sacramento, grazie al fatto che la fede non si fonda su Dio che si rivela, ma è una risposta esistenziale a Dio che c'interpella;
- un Magistero consapevole d'aver in custodia il sacro deposito della Rivelazione divina con il compito d'interpretarla e di trasmetterla alle generazioni venture mediante il Concilio Ecumenico e il successore di Pietro, vertice e sintesi d'ogni istanza ecclesiale, nonché i successori degli apostoli, purché legittimi ed in comunione col Romano Pontefice; ed un Magistero papale che, lungi dal sentirsi voce della Chiesa docente, sottopone la Chiesa stessa al collegio dei vescovi, dotato degli stessi diritti e doveri del Romano Pontefice;
- una religiosità che attua la vocazione comune al servizio di Dio e, per amore di Lui, dei fratelli in umanità; ed una religiosità che sovverte quest'ordinamento naturale, fa dell'uomo il suo "focus" e, almeno nella pratica se non nella teoria, lo sostituisce a Dio.
 

2.3 - Da quanto precede si desume facilmente come la Fraternità san Pio X intenda la Tradizione. Tradizione, infatti, è tutto il contrario di ciò che la Fraternità nega e di ciò cui s'oppone. Direttamente o tra le righe, nega le innovazioni dei documenti conciliari e s'oppone all'uso disinvoltamente selvaggio che n'è stato fatto.
E' vero, negli scritti della Fraternità San Pio X non figuran frequenti esplicitazioni del concetto di Tradizione, né una sua trattazione sistematica. Ma che cosa essa intenda e che cosa auspichi non resta mai nell'ombra. Alla base di tutto sta "la foi de toujours" a salvaguardia della quale la Fraternità è sorta. Salvaguardia indica opposizione a qualcosa, presente o possibile, a favore del suo contrario o in alternativa ad esso. La "fede di sempre" è il valore che S. E. Mons. Marcel Lefebvre intese salvaguardare. Un valore alternativo a tutte le sue attenuazioni, reinterpretrazioni, riduzioni e negazioni dell'epoca conciliare e postconciliare. C'è, in quella "fede di sempre", l'eco ben chiara dell'insegnamento agostiniano nella forma del Lerinense: "quod semper, quod ubique, quod ab omnibus creditum est". L'istituzione stessa della Fraternità, con la sua finalità primaria della formazione sacerdotale, obbediva all'ideale e all'impegno dell'accennata salvaguardia. Salvaguardare la fede e combattere l'errore.
Non entro nei particolari delle non facili relazioni tra Santa Sede e Fraternità san Pio X: m'attengo al tema comune della Tradizione ed osservo che "salvaguardare la fede e combattere l'errore" dovrebb'esser l'ideale e l'impegno sia della Chiesa, sia d'ogni suo figlio. Alla luce di ciò, mi resta difficile capire se il già citato rimprovero di "Tradizione incompleta e contraddittoria" abbia un reale fondamento. Una cosa mi par di capire: non si fonda sullo "spirito d'Assisi".
                                           
3 - La Tradizione vivente - Era questa la ragione addotta a conferma dell'incompletezza e della contraddittorietà rilevate nell'idea di Tradizione della Fraternità san Pio X ed a questa rimproverate: "...non tiene sufficientemente conto del carattere vivente della Tradizione"[78]. In che cosa consista questo "carattere vivente", lo dice - non cartesianamente - ogni moderno teologo: la Tradizione è vivente se, ad ogni epoca, trasmette "l'oggetto della fede biblica[79] in forma nuova e adeguata alla situazione storica e culturale; solo attraverso di essa è possibile un sempre nuovo esser interpellati e raggiunti da questo oggetto e, in tal modo (è possibile) anche un effettivo comprendere il suo significato definitivo"[80]. Degno di nota è che ogni "forma nuova" dipende non da una determinazione normativa dell'autorità ecclesiastica, ma da "un processo assai laborioso di riflessione e di ricezione", a prescindere dal quale si ricadrebbe in una tradizione pietrificata e morta[81]. Degno di nota è pure il fatto che "vivente" dev'esser detta la Tradizione non se nella sua attuale realtà è vivo e vitale il suo contenuto di sempre, sia pur espresso in forme nuove, più esplicite e più comprensibili, ma se questa sua attuale realtà è capace di far nascere dal vecchio tronco virgulti sempre nuovi, perfettamente in linea con tutte le piante del moderno giardino filosofico-progressista e costantemente annaffiati dalla rugiada del più radicale e coerente razionalismo illuministico.
 

3.1 - Per oltre dieci secoli la teologia della Tradizione, ch'era passata attraverso il vaglio dei vari Sant'Ireneo, Tertulliano e sant'Agostino ed era stata per così dire codificata da san Vincenzo da Lérins nelle sue rigide formule, aveva sorretto il lavoro di rifinitura di Padri, Pontefici, teologi e canonisti[82]. L'evo moderno cambiò la sensibilità e la criteriologia teologica. Quel che prima s'imponeva alla Chiesa stessa come Rivelazione divina delle verità salutari, da lei stessa ufficialmente trasmessa e garantita dalla successione apostolica, ora ha valore in base al suo stesso intervento. E' il valore che deriva non solo dal livello - il vertice massimo - della suprema autorità, ma anche dall'assistenza dello Spirito Santo, da Cristo promessa, affinché definendo o proponendo una verità, la Chiesa sia immune da errore. Prima la Tradizione era accolta perché proveniente dal Signore Gesù (traditio dominica) o dagli apostoli ed immediati successori (traditio apostolica); ora è la Chiesa a riconoscer o meno l'accennata provenienza, immedesimandosi nella Tradizione in quanto tale, precisandone la natura come canale di trasmissione e dichiarandone validità e limiti. Insensibilmente ma progressivamente il concetto di Tradizione si dilatò ed arricchì il suo spettro semantico: non più soltanto una Tradizione di verità da credere e di norme da rispettar in vista dell'eterna salvezza (traditio passiva vel obiectiva), ma anche una Tradizione come proposta (traditio activa). Nell'epoca posttridentina, anche se il Tridentino mai aveva esplicitamente parlato di Magistero, si ha già una prima omologazione di esso e della Tradizione[83]. Ed in epoca a noi più vicina, vent'anni prima del Vaticano II, un ancor giovane P. Parente scrisse senza la minima esitazione: "C'è da deplorare...la strana identificazione della Tradizione (fonte della Rivelazione) col Magistero vivo della Chiesa (custode ed interprete della divina parola")[84]. Peccato che poi, da Padre conciliare, si sia dimenticato di questo precedente ed abbia attivamente partecipato alla "reductio ad unum" della DV.
Una tale "reductio" non era un procedimento gratuito. Dietro di sé aveva quella "nuova autoconsapevolezza ecclesiale" che nasceva dalla considerazione della Chiesa come "unità del genere umano". Tutto apparteneva alla vita della Chiesa. Tutto ne era un vitale elemento. Ritornava in piena era conciliare quel soffio romantico che aveva distinto l'ecclesiologia di Möhler. La Tradizione non poteva che diventare vivente.
 

3.2 - La paternità dell'espressione non appartien al Vaticano II. E forse una sua individuazione apodittica sfugge anche al più rigoroso ricercatore. Certo è che l'aggettivo "vivus" non è assente dalla patristica; la qual cosa non necessariamente riguarda il problema della Tradizione. E non tutte le volte ch'è assente, la "vitalità" latita. Quando sant'Agostino scrive: "Hoc Ecclesiae semper habuit, semper tenuit; hoc a maiorum fide percepit; hoc usque in finem perseveranter custodit"[85], non c'è dubbio che volge la propria e l'altrui attenzione alla vitalità della Chiesa, della sua fede ed alla proposta che della fede ella farà sin alla fine del mondo, anche se è altrettanto indubbia la reticenza dell'aggettivo vivente. La ragione è che la Chiesa non solo è viva perché è mistericamente Cristo, ma proprio in quanto tale non può comunicare che vita, comunicando Cristo.
Di "viva traditio" si parlò frequentemente in ambito cattolico, a correzione del principio scritturistico protestante. In realtà, il "sola Scriptura" fu, attraverso il principio dell' "et/et", integrato da "evangelium vivum" e da "vivum verbum" e quando il dibattito privilegiò il tema della "regula fidei", i cattolici qualificaron "non animata" la regola protestante ed "animata" quella cattolica[86]. Il modulo verbale combiava, non il significato. Insomma, di Chiesa viva, di vivo Magistero ed evangelo vivo e Tradizione ugualmente viva, in un modo o nell'altro s'è sempre parlato. E che Scrittura e Tradizione sian non due parallele sulle quali corre la Rivelazione cristiana, bensì due sfaccettature d'un'unica realtà, formalmente diverse ma sostanzialmente confluenti, l'una e l'altra, nell'unità d'una medesima funzione, non fu il Vaticano II a dirlo per primo. Il grande J. Möhler sapeva bene che Sant'Ireneo aveva formalmente riconosciuto la Tradizione nel "complesso della dottrina ecclesiastica tramandata indipendentemente dalla Scrittura". Ma guardando più profondamente nella sua realtà, costatò "che la tradizione non è separata dalla linea dell'evangelo vivente nei fedeli...Né l'uso linguistico, né l'approfondimento della realtà stessa può giustificare l'opinione di coloro che presentan la tradizione come qualcosa a sé stante, indipendente dalla santa vita della Chiesa,...(e) non come una realtà quasi fluente dall'animo, dominato dallo Spirito"[87]. Anzi, proprio il richiamo allo Spirito Santo rende più chiara la nozione möhleriana di tradizione vivente. Come "il cristianesimo viveva nell'anima del Signore - e nell'anima dei suoi apostoli ripieni di Spirito Santo - ancor prima di diventare concetto, discorso, lettera", così avviene per la Chiesa santa e per ognuno dei suoi membri: "prima della lettera vi è lo Spirito e chi ha lo Spirito vivificante comprenderà senz'altro la lettera che ne è l'espressione".
E' qui evidente che lo Spirito, più e prima della lettera o del discorso, è la tradizione vivente. Ne consegue pure ch'essa vive nella Chiesa e nei suoi figli come riflesso della vivificante presenza dello Spirito. In effetti, "quello Spirito che riempiva gli apostoli è proprio lo stesso Spirito che riempirà in eterno la Chiesa; e solo chi da questa lo riceverà, potrà riconoscerlo nell'insegnamento"[88] che la Chiesa, piena di Spirito Santo e dal medesimo Spirito guidata, diffonde in ogni dove ed in ogni tempo.
Il "partim/partim" che già il Tridentino aveva parzialmente superato accostando insieme l'insegnamento scritto ed orale, nella prospettiva möhleriana, signoreggiata dallo Spirito, non ha più ragion d'essere: si è sempre dinanzi all'azione del medesimo Spirito, che trasmette alla Chiesa l'unica e sempre invariabile verità che salva. Non si può tacere, peraltro, il pericolo insito in una tale prospettiva, che sembra annegar il compito della Chiesa docente nei gorghi d'un vago spiritualismo soprannaturalistico. Pochi anni dopo, il Möhler della Symbolik corresse il Möhler dell'Einheit[89]. Fece, sì, ricorso al "Volksgeist" di provenienza idealistica, ma per riconoscerlo come Spirito Santo che, nelle operazioni "ad extra" e secondo l'economia generale della salvezza, rispetta la legge per la quale lo spirituale passa attraverso il materiale, l'interiore attraverso l'esteriore. In armonia a tale legge, concepì la Chiesa istituita da Cristo e governata dallo Spirito Santo coma una "compenetrazione (Durchdringung) di divino e d'umano", "maestra ed educatrice" mediante il tesoro di verità e l'alto insegnamento della "Tradizione", supremo "giudice nelle cose di Fede", il quale, nell'emetter una sentenza sul contenuto del suddetto tesoro, "interpreta in pari tempo Scrittura e Tradizione". Stante codesta qualità di supremo giudice in materia di Fede, il Magistero è "formalmente distinto" - dichiara con fermezza J. Möhler - dall'oggetto del suo insegnamento, dalla Tradizione cioè scritta ed orale. La sua attività, infatti, obbedisce esclusivamente alla comunione di tutt'il corpo ecclesiale, della quale lo Spirito Santo è l'unico principio e per la quale tanto il supremo giudice quanto i singoli fedeli "comunicano con lo spirito e col cuore di tutti"[90].
 

3.3 - L'insistenza sulla presenza dell'aggettivo vivente o del relativo concetto ancor prima dell'odierna infatuazione per Tradizione vivente, potrebbe trarre qualcuno in inganno: a tutto potevo pensare tranne che al solito "nihil sub sole novum" (Cohelet 1,9). Ad un certo momento, infatti, nell'uso di vivente entran motivazioni effettivamente nuove ed il significato cambia. Ne ho parlato, appunto, non tanto perché l'aggettivo già da tempo accompagnava il riferimento ad evangelo, magistero. chiesa, tradizione, quanto perché il senso allora datogli divergeva da quello oggi largamente in uso. Oggi, ma non di oggi.
Il cambiamento s'iniziò assai presto. Già prima del Möhler, ossia nella "turbinosa Europa teologica"[91] del Fénelon e del Bossuet. Fu soprattutto il primo che, influendo col suo quietismo sulla mistica romantica di Madame Guyon, vide nella tradizione vivente il valore che tutela l'equilibrio fra libertà e sicurezza comune, impresse nei cuori dei popoli. Il romanticismo tedesco, intanto, aveva chiaramente superato ogn'individualismo a favore della concezione organica della società e della Chiesa: un organismo vivente per ricondurre unità nella diversità e nella molteplicità. Da posizioni nettamente diverse, i maestri che dettero vita alla "Scuola di Tubinga" si ritrovaron più o meno d'accordo col Fénelon. E proprio alla detta Scuola va ascritto l'uso "moderno" di Tradizione vivente. Per il suo fondatore, J. M. Sailer († 1832) la Chiesa non è altro che una vivente mediazione fra cristianesimo interiore e comunità. La Tradizione vivente - specifica connotazione della teologia francese nel XVII e XVIII sec. - è l'idea-guida verso un concetto di Chiesa, che alla parola vivente degli apostoli dà un'efficacia sempre nuova e sempre più attuale[92].
Una sempre più decisa sterzata in tal senso venne impressa alla "Scuola di Tubinga", e precisamente alla sua facoltà di teologia fin da quando vi fu trasferita, nel 1817, da J. S. Drey († 1853). La sua idea di fondo si collega al piano organico del Creatore ed al suo incessante sviluppo nel tempo, grazie ad una forza immanente continua e necessaria, la forza dello Spirito Santo, che riflette l'organicità del piano divino nell'organicità della Chiesa che lo compie. Da una tale idea di fondo dipende la ragione per la quale la Chiesa va concepita come un organismo vivente, dinamico, guidato e governato dallo Spirito Santo, sempre presente in esso e sempre all'opera, per farne un'espressione viva e vitale del Regno di Dio, l'organo della sua Rivelazione, l'imperituro canale del dato rivelato. Drey ricorre, per illustrare la sua forte accentuazione del valore vita, ad un'analogia: avviene nella Chiesa ciò che si verifica nella pianta, una crescita silenziosa, misteriosa, quasi impercettibile[93]. E su di essa, dopo che Sailer e Drey vi posaron il proprio sguardo indagatore, si svilupparon le fortune della "Scuola di Tubinga" e del suo metodo teologico, sempre legato al concetto di Tradizione vivente. Quelli che sopra ho chiamato Maestri son nomi che i teologi conoscon bene: del grandissimo J. A. Möhler s'è già detto qualcosa; qualcosa m'accingo a dir pure di altri.
Continuatori ed epigoni della detta Scuola, della sua opposizione al razionalismo e deismo imperanti nel sec. XVIII, dettero alla Chiesa i connotati d'una comunità di vita (Lebensgemeinschaft): d'una vita, intendo, dipendente da due fonti e da esse alimentata: la grazia, di cui il principio è lo Spirito Santo, e la verità rivelata, di cui il canale è la Tradizione vivente. Subì l'influsso di Sailer J.B. Hirscher: rifiutando lo sterile annaspare della scolastica nel XVIII sec., il ben noto moralista di Tubinga e di Friburgo orientò ogni suo sforzo nella direzione della Chiesa come organismo vivente: a) Regno di Dio realizzato nel tempo dalla storia della salvezza e dalle sue tre tappe, distinte ma confluenti escatologicamente nella vita eterna; e b) institutum salutis in quanto corpo mistico di Cristo che continua nel tempo e nello spazio l'opera salvifica di Cristo.[94]
Anche F. A. Staudenmaier[95], un alunno dei grandi Maestri tubinghesi, raggiunse sul piano liturgico lo stesso risultato che altri avevan raggiunto sul piano storico-dogmatico: un'adesione, cioè, alle idee möhleriane sulla Tradizione vivente, concorrendo egli pure al superamento in teologia del positivismo e del liberalismo. Con lui altri pure dovrebbero esser qui recensiti (J. G. Herbst, J. Kuhn, F. Probst, P. B. Gams, F. X. Funk, P. Schanz)[96], se l'elenco potesse contenersi in poche righe. E' sufficiente dire che la "Scuola di Tubinga" raggiunse i fastigi della più alata notorietà sia per il suo metodo rigorosamente scientifico, sia per i contenuti teologici difesi e diffusi, fra i quali spicca la Tradizione vivente.
 

3.4 - Un'altra scuola, con orientamento filosofico e teologico nettamente diverso e con una linea metodologica che, congiungendo armonicamente l'indirizzo positivo e speculativo con le esigenze irrinunciabili della Tradizione, del Magistero e del lavoro scientifico, destituiva di fondamento la già serpeggiante accusa di conservatorismo, s'era intanto imposta all'attenzione comune. E' la "Scuola Romana", come la si definisce comunemente dopo che H. Schauf ne parlò in tal senso[97].
Attuando la potenzialità di prodromi già in atto da tempo, la "Scuola Romana" nacque in pieno XIX sec. e raccolse intorno a sé i gesuiti del Collegio Romano, nonché altre eminenti personalità del clero secolare e regolare che operavan all'Apollinare, a Propaganda Fide, alla Minerva ed in altri centri, anche al di fuori dell'Urbe[98]. I suoi meriti, indubbi, non incontraron il plauso della critica. Alcuni per ragioni e pregiudizi personali (p. es. J. Döllinger, J. Friedrich, A. Rosmini), altri per una cieca e forse preconcetta opposizione critica, soprattutto in direzione antitomista o anticuriale, la dipinsero con i chiaroscuri d'una semplice ripetizione di dati magisteriali, priva d'effettivi apporti scientifici ed eccessivamente dedita a preoccupazioni apologetiche[99]. Non potendo né volendo in questa sede parlar di tutt'i suoi rappresentanti, mi limito a qualcuno di essi e sempre nella prospettiva della Tradizione ecclesiastica.
G. Perrone (1794-1876)[100], della cui originalità e profondità non sembra convinto Y. M.-J. Congar[101], accolse e sviluppò l'idea möhleriana della Chiesa come continuazione sacramentale dell'incarnazione del Verbo, parlandone ovviamente in termini analogici. Collegandosi ai "loci theologici" di M. Cano, vide nella Chiesa e nel suo Magistero il "locus theologicus" o principio trasmissivo della Fede non tanto in senso oggettivo, quanto come soggetto della trasmissione stessa, e quindi come "regula fidei". Sotto questo profilo, il suo concetto di Tradizione assorbì, fin a confondersi con esso, il Magistero vivente della Chiesa. Un siffatto assorbimento - di per sé criticabile - dava al Perrone la garanzia teologica della Tradizione, testimoniandola come fenomeno vivo della Chiesa. Per questi motivi, definì la Chiesa come un sistema d'autorità, divinamente infallibile, l'unico da Dio voluto e stabilito per la conoscenza della verità salutare, e condivise con Möhler l'idea d'una Tradizione vivente nel Cristo continuato e nella Chiesa che lo continua[102].
Ad un alunno del Perrone, Carlo Passaglia (1812-1887)[103], spetta la palma del più qualificato e dotato rappresentante della "Scuola Romana". Se per gli spiriti c. d. illuminati i suoi scritti sull'autorità della Chiesa e del Papa di fronte all'assolutismo di stato ed al liberalismo sociologico posson apparire datati e quindi non pienamente in linea con le grandi acquisizioni contemporanee, nessuno dovrebbe permettersi di guardare dall'alto in basso la sua idea ineccepibile di Tradizione vivente, alla quale rimase sostanzialmente fedele anche dopo la sua rottura con le autorità romane (1861). Si può ben dire ch'egli usò l'aggettivo vivente in relazione alla vita stessa della Chiesa, distinguendo Tradizione e Magistero che Perrone aveva invece unificato, e sottolineando l'eredità möhleriana e la sua continuità con essa con un'apertura significativa della Tradizione vivente tanto al Magistero che l'ebbe per disposizione divina in custodia, quanto alla comunità guidata dall'attuosa presenza dello Spirito Santo[104].
Ad un attivo teologo del Vaticano I, Clemens Schrader (1820-1875)[105], che non fu certamente l'ultimo della "Scuola Romana", non si può disconoscer il merito d'aver concorso al concetto di Tradizione vivente soprattutto con De Unitate Romana, che già nel titolo lega a Roma e al titolare della sua sede, come alla sua "conditio sine qua non", il perenne permanere della Chiesa nella sua inscindibile unità. Fu questa, ed è, l'autocoscienza che accompagna l'incedere della Chiesa nella storia fin dai suoi inizi: quella del Romano Pontefice come il principio dell'unità ed il criterio della fede cattolica[106].
Il teologo più d'ogni altro meritevole di menzione, specie per l'argomento che c'interessa, risponde al nome di G. B. Franzelin (1816-1886)[107] che ebbe come maestri Perrone e Passaglia. Fa testo il suo trattato sulla Tradizione e non solo quello. Per lui, un intreccio di parola ed eventi e d' eventi che spiegan la parola, son alla base della Rivelazione. L'evento nel quale la parola s'identifica è l'incarnazione del Verbo: una concrezione di parole e di fatti. Poiché il Verbo rivive nella Chiesa, questa pure è insieme parola ed evento: non solo una proclamazione delle verità rivelate, ma anche di sé come segno che indica e che garantisce l'avvenuta Rivelazione. La Tradizione, pertanto, è la stessa attività magisteriale della Chiesa attraverso il suo corpo docente (Perrone), mai disgiunto dall'autocoscienza di Fede della comunità cristiana (Passaglia). E' la Chiesa in quanto parola ed evento di salvezza, non nel senso che si confonda con l'incarnazione del Verbo, bensì in quello d'una sua re-praesentatio - come noi oggi diremmo - sacramentalis[108].
Un errore nel quale comunemente s'incorre è quello di bloccare sul Collegio Romano l'attenzione storico-critica alla "Scuola Romana", come se ad essa non appartenessero che i professori gesuiti di quel Collegio e poi della Gregoriana. La realtà è un'altra. Alla "Scuola Romana" appartengono teologi del calibro di M. J. Scheeben, che non insegnò mai a Roma, ma che a Roma aveva ascoltato Liberatore, Perrone, Cercia, Ballerini, Kleutgen, Franzelin e Passaglia. Le appartengon, inoltre, ed alcuni con il ruolo d'iniziatori almeno remoti, ecclesiastici insigni che concorsero a farla grande e gloriosa. Forse sarà opportuno non dimenticare che alla richiesta tridentina d'incrementare l'attività didattica avevan dato immediata risposta, insieme con i gesuiti, anche somaschi, barnabiti e scolopi. Altrettanto era avvenuto nel XVII-XVIII sec., quando teologi come R. C. Billuart e V. L. Gotti, religiosi come i benedettini di Salzburg ed i gesuiti di Würzburg, e santi come Alfonso de' Liguori promossero un vero progresso teologico sul piano speculativo e positivo[109]. L'insegnamento appartiene infatti alla Chiesa e non ad una sua istituzione, sia pure altamente benemerita. Fu proprio ciò che si verificò con la "Scuola Romana", nell'atmosfera dell' "Aeterni Patris" di Leone XIII. I suoi precursori s'individuano nel gruppo napoletano dei M. Liberatore (1810-1892) G. Sanseverino (1811-1865), N. Signoriello (1820-1889) e soprattutto S. Talamo (1844-1932), con altri non meno illustri. Ad essi devon aggiungersi due grandi domenicani, T. Zigliara (1833-1983) e Z. González (1831-1894)[110].
Nel 1773, per la soppressione dei gesuiti, l'insegnamento di filosofia e teologia passò al clero secolare con sede presso sant'Apollinare. Così praticamente nacque l'Ateneo Lateranense, col quale, nel 1853, il beato Pio IX mise in stretto collegamento il "Seminario Pio" da lui stesso fondato[111] .
Pertanto, unitamente ai valorosi gesuiti della "Scuola Romana", di cui sopra s'è fatto qualche nome, altri personaggi, non men importanti, d'altre famiglie religiose o del clero secolare, operaron all'interno della medesima Scuola. Primeggia, tra costoro, S. Talamo (1854-1932), chiamato da Leone XIII all'Apollinare e da lui nomimnato segretario dell'Accademia Romana di san Tommaso[112]. Con lui, il domenicano A. Lepidi (1838-1922), restauratore degli studi ecclesiastici in Francia e docente a Lovanio, poi rettore del collegio "San Tommaso" a Roma e titolare della cattedra di teologia dogmatica. Dal 1897 fin alla morte, fu pure Maestro del Palazzo Apostolico[113]. Alunno di Gioacchino Pecci a Perugia e poi collaboratore di lui, divenuto Leone XIII, fu F. Satolli (1839-1915), professore di dogmatica all'Apollinare e a Propaganda Fide e nel 1895 cardinale; fedele interprete del tomismo in filosofia e teologia, è considerato una gloria della "Scuola Romana"[114]. Ancor un nome, quello dell'illustre stimmatino R. Tabarelli (1851-1909), che insegnò filosofia e teologia dogmatica all'Apollinare ed all'Accademia di san Tommaso d'Aquino, opponendo l'Aquinate al pericolo modernista e destituendo efficacemente d'ogni fondamento l'ontologismo, il positivismo e il razionalismo[115]. Non per motivi di completezza, impossibile in questa sede, ma di giustizia, desidero ricordar alcuni grandi maestri, coi quali io stesso fui in rapporti di discepolato, di collaborazione e d'amicizia: C. Fabro (1911-1995) giustamente in prima linea, perché di tutti il più grande; il card. P. Parente (1891-1986), insigne dogmatico di Propaganda Fide e della Lateranense; A. Piolanti (1911-2001), colonna della Lateranense come professore e come rettore, nonché rinomatissimo professore di Propaganda Fide, cultore indefesso dell'Angelico e promotore d'iniziative a raggio universale, come i Congressi Internazionali su san Tommaso d'Aquino e varie riviste d'altissima levatura storico-teologica. Collegate, infine, con la "Scuola Romana" sono pure due Accademie che operarono nel quadro dei suoi interessi: la Teologica Romana e quella di san Tommaso.
Da modesto continuatore di sì insigne Scuola, ne ho segnalato per sommi capi alcuni Maestri non perché "laudator temporis acti", ma perché essa stessa, con il suo orientamento dichiaratamente tomista e la sua fedele adesione al Magistero ecclesiastico, è come un faro che illustra della sua luce tutta la storia della Tradizione e ne mette in risalto la perenne vitalità.
 

3.5 - Quest'ultima parola mi ricorda l'interesse del presente paragrafo per la Tradizione vivente. Fin a qui, l'aggettivo vivente ha messo in evidenza un dato positivo ed innegabile della vera Tradizione; potrei dire ch'essa è vera solo se vivente ed in tanto vivente in quanto vera. Strada facendo, ho peraltro ricordato che troppo frequentemente, dal Vaticano II in poi, ci s'appella alla Tradizione vivente, dandole significati ben diversi da quelli per i quali essa è veramente viva. Ho anche spiegato l'attuale concetto di Tradizione vivente: tale essa è a condizione che il Magistero di sempre s'apra agli apporti del presente, li assimili e li riproponga non solo come non antitetici rispetto alla Tradizione delle origini, ma come suo attuale sviluppo, espresso ovviamente nei termini che qui ed ora son più accessibili, anche se sostanzialmente diversi e perfino contrari rispetto a quelli originari.
Ho fatto anche i nomi di coloro che sono stati, nella nostra epoca, gli artefici del sostanziale passaggio da un concetto di vivente ad un altro: un passaggio esiziale, portatore di morte. Rahner, Schillebeeckx, Küng: i capi indiscussi. E poi la fungaia degli orecchianti e la mai soddisfatta Teologia della liberazione.
Progressivamente si son assimilati in campo teologico, ma anche esegetico e storico, principi e pensieri che, in origine o di per sé, nulla presentan d'eccepibile[116], ma che in seguito, "sensim" e certamente non "sine sensu" s'introducon nel vocabolario teologico, lasciandovi non solo il segno, ma anche il peso della loro mortifera presenza, fin a stravolger il significato orginario della Rivelazione e del dogma. Si parte sempre dall'ovvio: gli errori contro la Fede o gl'interrogativi ad essa nascon in un determinato ambiente storico, di cui chi risponde non può non tener conto. Il tenerne conto ha per effetto - com'è spesso accaduto prima e dopo il Vaticano II - che le idee e gli strumenti offerti dalla cultura del tempo, e specialmente da quella filosofica, diventan le idee e gli strumenti della teologia, se non proprio del Magistero. La storicità è la condizione e per alcuni addirittura il valore di fondo da cui necessariamente parte la riflessione teologica. Tutto è nella storia: la Rivelazione, la Fede, la teologia. La stessa Commissione Teologica Internazionale ritenne, nel 1972, che il valore storicità fosse la condizione di fondo per la comprensione della realtà e per una necessaria autoricomprensione della teologia nella storia[117]. La "svolta antropologica" ha fatto il resto. Oggi, in teologia, si parla quasi sempre un linguaggio non più teologico, con la pretesa del suo adattamento, insieme diacronico e sincronico, ai tempi che cambiano, alle filosofie che si succedono o s'elidono, alle scienze umane in continuo movimento. Si teorizzan tali adattamenti com'espressione insieme d'alta scientificità e di storicità, con la certezza - non si sa da che cosa garantita - che anche chi non se ne rendesse conto, sarà sempre debitore, nell'esprimer il suo credo teologico, al sovrapporsi sul suo stesso Credo di forme e strutture socio-culturali come un cumulo di tradizioni (cumulated traditions)[118]. Esse sarebbero, di quel Credo, d'ogni credo, il criterio euristico, la specificazione, l'integrazione, la manomissione, il rinnovamento, l'annullamento. Mi chiedo se proprio questo intendesse la Segreteria Generale del Sinodo dei Vescovi, inserendo nel suo Instrumentum laboris del 2008 frasi come le seguenti: "...la Parola di Dio...è in consonanza con la vita concreta delle persone del nostro tempo"[119], "le Chiese particolari assumano il compito di accogliere la Parola di Dio in relazione alla loro peculiare situazione"[120], la quale consente "oggi (di) parlare di un approccio biblico differenziato in Europa, in Africa, in Asia, in America, in Oceania"[121] perché la Parola di Dio "non è caduta direttamente dal cielo, ma è propriamente una sintesi di culture"[122].
Una "sintesi di culture" è estranea e perfino contraria al processo d'inculturazione evangelizzante; è il risultato finale delle cumulated traditions, o più precisamente à quel pot pourri che, acculturandolo, si sovrappone all'evangelo per fagocitarlo. Come sarà possibile, allora, una Tradizione vivente che incorpora i fenomeni culturali destinati a snaturarla e quindi a neutralizzarla? "Quae autem conventio Christi ad Belial" (2Cr 6,15)? Se il sì neutralizza il no e viceversa, nessuno dovrebbe sottrarsi all'evidenza che ne segue; e cioè che tutt'il pensiero filosofico dall'illuminismo in poi ha dato vita ad una cultura o dichiaratamente atea, o deista com'esaltazione della sola ragione e netta opposizione al concetto stesso di Rivelazione. Quando - si pensi all' Anonimo di Wolfenbüttel ed a tutta la corrente razionalista che lo seguì - lo stesso illuminismo volse il suo interesse a Cristo e produsse il risultato d'una radicale dissoluzione razionalista della divina Persona di Gesù e dello svuotamento totale del Cristianesimo d'ogni valore trascendente e soprannaturale, s'ebbe la dimostrazione lapalissiana dell'irriducibilità fra Fede cristiana e cultura moderna. Oggi, in una temperie culturale d'illuminismo addirittura esasperato, l'estrema incoerenza o la strana dabbenaggine di chi è "maestro in Israele" propone una Tradizione vivente, nella quale il sì della verità da sempre trasmessa non elide il no dell'opposta dottrina, ma a questa affida i propri contenuti per un' "autoricomprensione" di essi, nell' ambito d'un pluralismo incolore ed insensibile allo stridore dell'antitesi. Non è un paradosso, è l'assurdo, il logicamente contraddittorio, l'antitesi assurta a validità esemplaristica ed ideale.
 

3.6 - Perché non si pensi ad un discorso astioso o prevenuto, faccio qualche esempio concreto con riferimento, oltre che al Vaticano II, anche alle pretese di trarne argomento per il nuovo significato di Tradizione vivente.
a) Inizio dal famoso "subsistit in" di LG 8/b. Il testo ricorre ad un'inutile ed ingombrante circonlocuzione per non offendere gl'interlocutori del dialogo ecumenico con un semplice "Haec unica Christi Ecclesia est Ecclesia catholica". E' pur vero che, su quest'identificazione, la circonlocuzione non lascia dubbi, ma il rispetto dei detti interlocutori espunse evidentemente la perentoria formulazione della Professio Fidei Tridentina e del Vaticano I: "Sancta catholica apostolica Romana Ecclesia"[123] . LG 8/b lasciò più d'una porta aperta ad un concetto di Chiesa inclusivo anche della loro presenza con la proposizione concessiva "licet extra eius compaginem elementa plura sanctificationis et veritatis inveniantur, quae ut dona Ecclesiae Christi propria, ad unitatem catholicam impellunt". UR 3/b-d fece poi il resto: riconobbe che fuori della Chiesa cattolica esistono "plurima et eximia bona, quibus simul semptis ipsa Ecclesia aedificatur et vivificatur". Ovvia la conclusione da trarre: la Chiesa di Cristo non è quella cattolico-romana, ma questa concorre con altre - ossia con tutte quelle che dispongono dei "bona plurima et eximia quibus ipsa Ecclesia aedificatur et vivificatur" - alla costituzione della Chiesa di Cristo. In codesta Chiesa di Cristo, dunque, e nell'insieme dei soggetti ecclesiali che concorrono a costituirla, sussiste la Chiesa vera. Alla Chiesa cattolico- romana non resta che rassegnarsi ad esser parte del tutto. Ciò significa che la preposizione in venne scelta ad arte per operar il passaggio da un giudizio d'identità (Ecclesia Christi est Ecclesia catholica) ad un giudizio d'inclusione (la Chiesa di Cristo include in sé quella cattolica e tutte le altre dotate di beni salutari).
Sarei proprio grato a chi dimostrasse:

  1. che oltre alla Chiesa cattolica - fuori della quale, come si sa, non c'è salvezza[124] - altre chiese, per disposizione di Cristo, son nell'economia ordinaria della salvezza canali e strumenti di essa;
  2. che la Chiesa cattolica, pertanto, non può pretendere d'arrogarsi in esclusiva la capacità salvifica;
  3. che la Chiesa cattolica, inclusa con altre nella Chiesa di Cristo, non s'identifica con essa, ma tutt'al più concorre a formarla;
  4. che una tale inclusione è, insieme con quanto precede, la genuina dottrina di sempre e da sempre trasmessa dalla Tradizione vivente.
b) Come secondo esempio, riporto l'affermazione di DH 2/a sul fondamento della libertà religiosa: "Declarat ius ad libertatem religiosam esse revera fundatum in ipsa dignitate personae humanae, qualis et verbo Dei revelato et ipsa ratione cognoscitur". Una nota arranca da Giovanni XXIII a Pio XII, Pio XI, Leone XIII, ma non dimostra né il fondamento naturale della libertà religiosa, né la sua conoscibilità mediante la parola di Dio e la ragione umana. I commentatori, invece, fan dire al testo conciliare più di quant'effettivamente, benché oscuramente, esso dice. Per es., C. Riva[125] prima limita il fondamento alla dignità della persona umana, poi mette in evidenza che tale dignità è affermata dalla Rivelazione "coi fatti...e con le parole", per insinuar un fondamento teologico accanto a quello ontologico [126]. Là dove, però, il testo conciliare lo consente, il discorso del commentatore cambia. DH 9 dichiara apertamente: "...haec dotrina de libertate radices habet in Revelatione". Non è una scoperta contraddizione di quanto afferma DH 2/a, ma una sua esplicitazione. Riconosce che manca una diretta ed esplicita affermazione biblica della libertà religiosa, mentre è invece presente il riconoscimento della dignità della persona, "il rispetto di Cristo verso "di essa, lo spirito ch'egli lascia alla sua Chiesa perché tratti ogni uomo con il suo stesso amore. Riva coglie allora la palla al balzo e conclude al fondamento teologico della libertà religiosa[127].
Ognuno vede da sé che il fondamento è labile; tuttavia si continua a ripeterlo, imperterriti. Inevitabile, allora, un'osservazione: la Rivelazione oggi invocata a favore ed a supporto della libertà religiosa, fin ad ieri veniva invocata a fondamento d'una sola libertà: quella di cercare conoscere amare e servire Dio. E, di conseguenza, a condanna d'ogni suo uso abnorme, se non proprio d'ogni altra libertà. Il beato Pio IX, nel Syllabus del 1864 - che qualcuno in mia presenza, e quel ch'è peggio in una commissione di studio nominata dalla Santa Sede, definì "pestifero" - proprio alla Rivelazione s'appellò per proscriver affermazioni di questo genere: "Liberum cuique homini est, eam amplectendi ac profiteri religionem, quam rationis lumine quis ductus veram putaverit - Homines in cuiusvis religionis cultu viam aeternae salutis reperire aeternamque salutem assequi possunt"[128]. Il medesimo Pontefice, nell'enciclica "Quanta cura" che accompagnava il Syllabus, giustificò il suo intervento sulla base della "sacrarum Litterarum, Ecclesiae Sanctorumque Patrum doctrinam". Richiamandosi poi al famoso "deliramentum" del suo predecessore Gregorio XVI[129], nonché alla "libertas perditionis" di sant'Agostino[130], ripeté l'insostenibilità, su base biblica e razionale, che la "libertà di coscienza e di culto fosse un diritto d'ognuno"[131]. Il Pontefice concludeva la sua dichiarazione con un pensiero di san Gregorio Magno[132]: "Si humanis persuasionibus semper disceptare sit liberum", mai, "ex ipsa Domini nostri Iesu Christi institutione", questa libertà dovrà opporsi alla sapienza rivelata.
So bene che fra libertà di coscienza e libertà religiosa c'è differenza: l'una è relativa all'intimo sacrario che solo l'io gestisce, l'altra al libero orientarsi delle sue scelte religiose. Direi che la libertà religiosa nasce dalla libertà di coscienza, ne fa parte e la specifica, anche se non mancan dichiarazioni ufficiali sulla loro identità[133]. Ne parlo non per un'analisi teoretica dei concetti, ma per un'osservazione sulla logica e la coerenza d'alcuni pronunciamenti. Soprattutto di quello riguardante la fondazione della libertà religiosa nella Rivelazione biblica.
Ora, la prima cosa da dire a tale riguardo è la grande diversità di prospettiva fra il no di Pio IX ed il di DH: Pio IX s'opponeva all'indifferentismo religioso e, quindi, al relativismo morale delle scelte in materia di religione e di culto; DH, a tutela di quell'inviolabile sacrario ch'è l'io personale, s'oppone ad ogni sua costrizione e ne difende la scelta religiosa, qualunque essa sia. In astratto le due posizioni non s'ostacolano; in concreto, l'incontrollata libertà delle scelte religiose porta fatalmente all'indifferentismo temuto e combattuto dal beato Pio IX. Poiché le due posizioni dichiaran la propria dipendenza dalla Rivelazione, la domanda sopra già posta si specifica ora così:

  1. E' mai possibile che la Rivelazione chiusa dalla morte dell'ultimo apostolo, e da allora ovviamente rimasta unica irriformabile ed irriformata, dica su uno stesso argomento agli uni un sì e ad altri un no?
  2. Se ciò è stato reso possibile dalla svolta conciliare, significa forse che s'è dinanzi al "nuovo concetto di Rivelazione", sul quale recentemente s'è tornati a parlare?
  3. E se di fatto e di diritto s'è autorizzati a rifugiarci in un "nuovo concetto di Rivelazione", c'è forse di ciò, e qual è, la giustificazione che la Tradizione vivente riesce a suggerire?
c) Un terzo ed ultim'esempio, non perché non ce ne sian altri, ma per fermarmi al numero perfetto: la collegialità episcopale. Su di essa son passati i famosi fiumi d'inchiostro. Anche il mio. Sintetizzata, come si dice, in soldoni, essa consiste in un duplice soggetto d'un unico e medesimo potere, quello di governare, ammaestrar e santificare la Chiesa. Lo proclama LG 22/b dove prima si legge che "Romanus Pontifex habet in Ecclesiam, vi muneris sui, Vicarii scilicet Christi et totius Ecclesiae Pastoris, plenam, supremam et universalem potestatem (uso il corsivo per meglio evidenziar il concetto) quam semper libere exercere valet". Immediatamente dopo ci s'imbatte in quest'altra proclamazione: "Ordo autem episcoporum, qui collegio apostolorum in magisterio et regimini pastorali succedit,..subiectum quoque supremae ac plenae potestatis in universam Ecclesiam (c. s.) exsistit, quae quidem potestas nonnisi consentiente Romano Pontifice exerceri potest".
Il latino non è classico, ma è chiaro:
  1. una medesima potestà "piena suprema universale";
  2. un medesimo oggetto, la Chiesa;
  3. un esercizio differenziato;
  4. due distinti soggetti.
La presenza di due soggetti d'una medesima potestà, per analogia, richiama alla mia mente un ben noto testo di san Tommaso che, discutendo sul "potere meglio costituito", propende per quello del "capo supremo, dotato di virtù, che abbia sotto di sé ministri o capi subalterni, promossi secondo i loro meriti"[134]. Ho detto "per analogia", perché la Chiesa non è una società qualunque, organizzabile secondo ordinamenti politici, avendo ricevuto dal suo stesso Fondatore la propria costituzione e le sue caratteristiche essenziali. E' anche da tener presente che san Tommaso non opta per un solo modello, ma per tre, pur sottolineando quale di essi sia il migliore. E neanche in ipotesi considera l'idea di due soggetti paritetici d'un'unica e medesima potestà. Il testo citato, dunque, è solo un riferimento analogico. Ma non senza significato. Lo si coglie in un testo dell'enciclica "Satis cognitum", essa pure ben nota, nella quale, affrontando direttamente l'argomento del governo ecclesiastico, papa Leone XIII scrive: "Illud praeterea animadvertendum, tum rerum ordinem mutuasque necessitudines perturbari, si bini magistratus in populo sint eodem gradu, neutro alteri obnoxio. Sed Romani Pontificis potestas summa est, universalis, planeque sui iuris; episcoporum vero circumscripta finibus nec plane sui iuris"[135]. Il testo leoniano assume un connotato ancor più rilevante dal fatto che viene a conclusione di fondamentali considerazioni su ciò che Papa e vescovi hanno in comune e ciò che invece li distingue nell'esercizio delle loro mansioni. Appare ovvia, allora, la dottrina promulgata dalla "Pastor aeternus" del Vaticano I in questi termini: il Romano Pontefice ha non soltanto "officium inspectionis et directionis", ma "plenam et supremam potestatem iurisdictionis in universam Ecclesiam non solum in rebus quae ad fidem et mores, sed etiam in iis quae ad disciplinam et regimen Ecclesiae per totum orbem diffusae pertinent": ne discende che al Papa non competon semplicemente "potiores partes", bensì "tota plenitudo huius supraemae potestatis", la quale pertanto dovrà dirsi "ordinaria et immediata sive in omnes ac singulas ecclesias, sive in omnes ac singulos pastores et fideles"[136] .
Lascio la conclusione al grande san Bernardo († 1153), "ultimus inter Patres, primis certo non impar", il quale, rivolto a Pietro e ad ogni suo successore, s'esprime in questi termini icastici: "Tibi universi crediti, uni unus. Nec modo ovium, sed et Pastorum, tu unus omnium pastor. Unde id probem? Ex verbo Domini. Cui enim, non dico Episcoporum sed etiam Apostolorum, sic absolute et indiscrete totae commissae sunt"?[137]
Ho insistito sull'estensione universale della primazialità papale per dimostrare che, nella Tradizione ecclesiastica, essa non ha mai fatto a mezzo con quella dei vescovi, né tanto meno s'è ad essa abbinata ed in essa integrata. Il mai in effetti esclude qualunque eccezione, anche quelle delle note addotte da LG 22/b che non hanno un diretto riferimento alla collegialità.
Domande forse ingenue ma inevitabili:
  1. è allora la collegialità di LG 22/b a render vitale la Tradizione della Chiesa, o è la Tradizione vitale a legittimare la collegialità?
  2. la risposta, qualunque essa sia, può dimostrare d'esser in continuità con la traditio apostolica?
  3. Se, alla luce della costante traditio apostolica, tale continuità fosse indimostrabile, è mai possibile che una novità non omogenea, qual è la collegialità, diventi un coefficiente di vitalità ecclesiale ed un elemento costitutivo, quindi, della Tradizione vivente?
  4. Con quali argomenti si sosterrà allora che la Tradizione è vivente non quando le sue novità sian determinate da acquisizioni estrinseche e formali, ma quand'insorgono dall'acritica assimilazione della contraddittorietà nel proprio statuto ontico - alludo alla contraddittorietà fra la Rivelazione cristiana ed il nuovo concetto di essa, fra la fede nel Dio personale, incarnato in Cristo e vivente nella Chiesa e la cultura moderna dell'immanenza assoluta, oltre a quella postmoderna del nulla - che non vita le conferiscono, ma morte?

[1] E' superfluo rimandare ad AMERIO R., Iota unum. Studio delle variazioni della Chiesa cattolica nel sec. XX, Riccardi, Napoli 1985. Recentemente, quasi in contemporanea, son apparse due nuove edizioni, l'una per i tipi di "Fede & Cultura", Verona 2009 e l'altra edita da Lindau, Torino 2009. Non meno noto è il volume di SIRI G., Getsemani. Riflessioni sul Movimento Teologico Contemporaneo, Fratern. della SS.ma Vergine Maria, Roma 1980. A queste opere son certamente da aggiunger i due volumi di MARCHETTO A., Chiesa e Papato nella storia e nel diritto. 25 anni di studi critici, L.E.V. Città del Vaticano 2002 e Il Concilio Ecumenico Vaticano II. Contrappunto per la sua storia, L.E.V. Città del Vaticano 2005. Ed io pure ho l'impressione d'aver fatto qualcosa in margine al Vaticano II.
[2] Tale svolta ebbe una solenne stroncatura, che qualcuno giudicò eccessiva ma non certamente infondata, da FABRO C., La svolta antropologica di Karl Rahner, Rusconi, Milano 1974; ID., L'avventura della teologia progressista, Rusconi, Milano 1974; due anni prima aveva già scritto Il trascendentale esistenziale e la riduzione al fondamento in "Giornale critico della filosofia italiana" 4 (1972) 469-516. Quello che parve un discorso eccessivamente severo altro non era che una consequenziaria analisi della pseudoteologia rahneriana, colpevole d'aver acriticamente aperto le porte della teologia moderna al principio dell'immanenza.
[3] RAHNER K., Sul problema dell'evoluzione del dogma, in "Saggi teologici", edizioni paoline, Roma 1965, p. 265. I corsivi son miei. Lo scritto citato va da p. 261 a p. 325. Ne segue subito un altro: Riflessioni sull'evoluzione dei dogmi, ibid. p. 327-389.
[4] RAHNER K., Sul problema, cit., ibid. p.268.
[5] Ibid. p. 269. Il testo è quanto mai involuto e mi dispiace di non disporre di quello originale, che forse potrebb'esser un po' più chiaro, nonostante il pessimo tedesco di Rahner.
[6] Ibid. p. 275.
[7] Ibid. p. 304. Ho lievemente cambiato un periodo, per renderlo un po' più chiaro, vista l'assoluta non chiarezza che lo distingue.
[8] In "Wort und Wahrheit" 18 (1963) 269-279 ed in Das zweite Vatikanische Konzil. Studien und Berichte der Katholischen Akademie, Baviera, ed. K. Forster, Würzburg 1963, p. 71-91.
[9][9] RAHNER K., Sacra Scrittura e Tradizione, in "Nuovi saggi", ed. paoline Roma 1968, p. 179.
[10] Ibid. p. 180.
[11] Ibid. p. 180-181.
[12] Che diventano tali in seguito all'azione dogmatizzante della Chiesa.
[13] Ibid. p. 183.
[14] Ibid. p. 183. A p. 184 questa Chiesa apostolica o primitiva è definita l' "unità di misura permanente, invariabile, normativa, che si trasmette a tutti i secoli posteriori nella sua realtà e nella sua parola". I corsivi son miei.
[15] Ibid. p. 184.
[16] Ibid. p. 185.
[17] Ibid. p. 186.
[18] Nessun ondeggiamento, ma anche nessuna chiarezza. Giudichi il lettore: Ibid. p. 194-195: "Quando proclamiamo di credere esplicitamente in un punto che non si trova esplicitato nella Scrittura, noi non possiamo nemmeno ritrovare esplicitamente questa verità (si noti, ciò che un rigo sopra è solo "un punto", ora diventa "verità") oggi esplicita in quel che ci viene fornito dalla tradizione dei primi due o tre secoli....la Scrittura è l'oggettivazione normativa della fede normativa della Chiesa apostolica, ne consegue rigorosamente (domando perché "rigorosamente": non potrebbe la conclamata "oggettivazione" essere stata parziale? Chi può dire e provare il contrario? Il "rigorosamente", come si vede, è insostenibile) che la Scrittura deve (ancor una volta la necessità e la fatalità; nessuna prova, il fato non essendo tale) possedere la sua piena sufficienza, se la parola ha ancora un senso (già, me lo chiedo anch'io. Ma il colmo della ridicolaggine pseudologica arriva ora), ovunque la natura stessa delle cose non postuli al contrario la sua insufficienza". E questo è "il più grande ispiratore del Vaticano II!
[19] E' semplice ipotesi, o dubbio? "Ai posteri l'ardua sentenza"
[20] Ibid. p. 195.
[21] BARTH K., Die kirchliche Dogmatik I/1, Evang. Verlag A. G., Zollikon-Zurigo 19475, p.162-168.
[22] RATZINGER J., Vom Verstehen des Glaubens. Anmerkungen zu Rahners Grundkurs des Glaubens, in "Theologische Revue" 74 (1978) 185: "Was mich mitten in Ernst und Größe von Rahners Denken immer wieder stört, ist die allzu schnelle Übernahme moderner Verurteile gegenüber überlieferten Aussagen". Oggi, finalmente, un tomista tedesco, laico ma non per questo meno importante, DAVID BERGER, direttore di "Theologisches", ha lanciato il suo grido "Abschied von Rahner"; ed il grido è stato raccolto. Il medesimo Berger ha scritto vari articoli a tale riguardo, p. es. Karl Rahner - Das Ende eines Mythos und seine Apologeten, in "Una Voce Korrespondenz" 28 (1998) 67-90; ID., Abschied von einem gefährlichen Mythos - Neue Studien zu K. Rahner, in "Divinitas" XLVI (2003) 68-89; ID, Gegen die Tradition oder im Licht der Tradition? Zu neueren Interpretationen des zweiten Vatikanischen Konzils, in "Divinitas" XLVIII (2005) 294-316. Di rilievo è pure il volume a c. di p. Serafino M. Lanzetta, AA.VV., Karl Rahner. Un'analisi critica. La figura, le opere, la recensione. Teologia di K.R., 1904-1984, Cantagalli, Siena 2007. E non va dimenticata la poderosa opera di CAVALCOLI G., Karl Rahner, ed. Fede & Cultura, Verona 2009.
Sarebbe, però, un errore se si pensasse che il Mythos sia tramontato del tutto: ci son ancora cattedratici rahneriani, vescovi rahneriani ed apologeti come la filosofa Giorgia Salatiello, dell'Università Gregoriana, che non si stancano di batter le mani al celebrato maestro. Su Rahner e gli altri contemporanei che prenderò in esame, non mi sembra necessario fornire note bibliografiche.
[23] GALOT J, Dove trovare il vero volto di Gesù? A proposito delle opere di H. Küng e di E. Schillebeeckx, in "La Civiltà Cattolica" 126 (1975) 113-129.
[24] SCHILLEBEECKX E., Christus sacrament van de godsontmoeting, ed. H. Nelissen, Bilthoven 19604. La prima ed. era del 1957 a seguito del grande successo che aveva accolto la sua monumentale De sacramentele Heilseconomie, Anversa 1952. Sintesi della sua teoria sacramentaria, Cristo, sacramento dell'incontro con Dio fu dall'Autore stesso presentato come un'analisi della "grazia, venuta in forma visibile" a dimostrazione "di una sacramentalità assai più vasta, una sacramentalità dalle proporzioni cosmiche", Prefazione all'ed. italiana, ed. paoline, Roma 1966, p. 9.
[25] Ibid. ed. italiana, p. 43-52. Al contrario di ciò, un altro sulla cresta dell'onda, già mio alunno, ebbe la sfrontatezza di sostenere che solo sulla Croce Gesù prese coscienza della sua messianità. Non merita che ne faccia il nome.
[26] CONC. CHALCEDON., Actio V, 22 ott. 4521, Simbolo di Calcedonia, DS 301 e 303.
[27] SCHILLEBEECKX E., Il mondo e la Chiesa, versione it. di G. da Vetralla, ec. Paoline, Roma 1969, p. 227.
[28] Ibid. p. 162. Peccato che il dotto Autore non abbia spiegato come il trattamento libero - corsivo mio - del dogma sia, proprio perché tale, anche ortodosso.
[29] Ibid. p. 163. Confesso di sentirmi disarmato di fronte a questo "senso illativo". Non so infatti quale ne sia il significato. So che "illativo" è un procedimento logico per dedurre una conclusione da alcune premesse: quale conclusione? quali premesse? Se la comparazione fra gli apostoli che applicaron la Rivelazione ai problemi dei loro contemporanei e coloro che l'applicano ai nostri attuali problemi rientra nel "senso illativo", ciò vorrebbe dire che anche in Schillebeeckx riecheggia la "Tradizione vivente", sempre riaffermata, dalla Scuola di Tubinga in poi, ed entrata a vele spiegate nella teologia contemporanea, ma soprattutto nel Vaticano II e nel postconcilio. E' allora per esser "illativo" che Schillebeeckx s'impegnò fin all'inverosimile per far assumere dalla Chiesa il pensiero ed in genere la cultura del momento.
[30] SCHILLEBEECKX E., La missione della Chiesa, versione it. di A. Pompei, ed. paoline, Roma 1971, p. 31.
[31] Ibid. p. 33.
[32] Ibid. p. 33. Il corsivo è nel testo, dovrebbe risponder ad una particolare intenzione. Io non l'ho scoperta e mi pare che qui le parole non sian più chiare: di quale interno si parla? e se da questo si parte, chi effettivamente si mette in moto? e verso dove?
[33] Ibid. p. 41-42.
[34] Ibid. p. 42.
[35] Ibid. p. 42.
[36] Qualche esempio: rilevaron inesattezze, imprecisioni e perfino una qualche disonestà SCHUMACHER J., Der Glaube der Kirche. Neuinterpretierung oder Auflösung, in "Münchener Theolog. Zeitschrift" 26 (1975) 186; WEBER J. J., in "La Document. Catholique" 1970 (1975) 182; GERKEN A., in "Theolog. Literaturdienst" 2 (1975) 18; SCHEFFCZYK L., in "Entscheidung" 61 (1975) ed in "Esprit et Vie" 86 (1976) 337-349 parlò di "Cristianesimo sull'orlo dell'autodistruzione"; AA.VV., Diskussion über Hans Küngs "Christ sein", Grünewald-Verlag, Magonza 1976, dove esprimon giudizi assolutamente o parzialmente negativi, J. Ratzinger, W. Kasper, A. Grillmeier ed altri. Pienamente favorevoli son T. Schneider, K. Lehmann, B. Stoekle.
[37] Herder-Freiburg-Basel-Wien 19682.
[38] Einsiedeln 1970.
[39] P. es. in Konzil und Wiedervereinigung. Erneuerung als Ruf in die Einheit, Herder, Friburgo Br. 19637; Kirche im Konzil, Herder, Friburgo Br. 19642; Strukturen der Kirche, Herder, Friburgo Br. 19632;
[40] KÜNG H., Die Kirche, cit. p, 27: ""Alle anderen Zeugnisse kirchlicher Tradition, auch die tiefsinnigsten und die feierlichsten, können im Grunde nichts anderes tun als um dieses ursprüngliche Zeugnis vom Gotteswort kreisen, diese Ur-Kunde interpretieren, kommentieren, explizieren und applizieren: aus der je verschiedenen geschichtlichen Situation heraus".
[41] Ibid. p. 39.
[42] Ibid. p. 560-561: "Sie (die Katholiken) sind nicht allein damit. Auch die Orthodoxen haben ihren Papst: die Tradition. Und auch die Protestanten: die Bibel. Und schliesslich auch die Freikirchen: Freiheit. Aber wie das Papsttum der Katholiken nicht einfach der Petrusdienst des Neuen Testaments ist, so ist die Tradition der Orthodoxen nicht einfach die apostolische Überlieferung, so ist die Bibel der Protestanten nicht einfach das Evangelium, so ist die Freiheit der Freikirchen nicht einfach die Freiheit der Kinder Gottes"
[43] KÜNG H., Christ sein, Piper & Co. Verlag, Monaco 1974, p. 124.
[44] Ibid. p. 468.
[45] Ibid. p. 439-440.
[46] Si veda a tale riguardo la conferenza Che cosa deve rimanere nella Chiesa, Queriniana, Brescia 1973.
[47] Ibid. p. 450.
[48] Ibid. p. 446.
[49] Ibid. p. 433.
[50] Ed. Arthème Fayard, Parigi 1940, tr. it, di G. Auletta, ed. paoline, Roma 1961.
[51] GEISELMANN J. R., Das Konzil von Trient über das Verhältnis der Heiligen Schrift und der nichtgeschriebenen Traditionen: Die mündliche Überlieferung, ed. M. Schmaus, Monaco 1957, p. 163, 168ss; TAVARD G., Holy Writ or Holy Church. The Crisis of the Protestant Reformation, Londra 1959, p. 285-304.
[52] CONGAR Y. M.-J., La Tradizione e le tradizioni, ed. italiana, cit. p. 296-297.
[53] Ibid. p. 302-316.
[54] RAHNER H., Servir dans l'Eglise. Ignace de Loyola et la genèse des Exercices, Parigi 1959.
[55] CONGAR Y. M.-J., La Tradizione, cit. p. 315-316.
[56] Ibid., p. 318-319.
[57] Lehrbuch d. vergl.Confessionskunde, Friburgo Br. 1892, p. 271-175.
[58] CONGAR Y.M.-J, La Tradizione, cit., p. 328-376. Le Scuole indicate son soprattutto quella di Tubinga e quella Romana.
[59] Ibid. p. 366-367 e soprattutto nota 101. Cf AUBERT R., Le Pontificat de Pie IX (1846-1878, Parigi 1852, p. 354.
[60] Ibid. p. 371.
[61] S. Theologiae Summa, I/3: De Ecclesia Christi, Madrid 1950, n. 805-806.
[62] Mi permetto d'osservare che ciò ha senso solo limitatamente al Magistero passivo, in rapporto con la traditio passiva, perché il Magistero impersona anche la Traditio activa
[63] BENEDETTO XVI, Lettera del 10 marzo 2009 ai vescovi della Chiesa cattolica, in "Document. Catholique" 2421, p. 319-320.
[64] GIOANNI PAOLO II, Motuproprio Ecclesia Dei afflicta, § 4, in "Document. Catholique" 1967, p. 788.
[65] Lettre à nos frères prêtres, 42 (2009) 2.
[66] Ibid. L'occasione di questa reazione fu appunto l'uso "ingiurioso" d' "integrista" da parte de "La Croix" (30 maggio 2009).
[67] "Bien evidemment, qui dit formation sacerdotale et séminaire, dit logiquement ordinations - a dir il vero la "logica" in questo caso dovrebbe collegare le ordinazioni non al solo seminario ed alla sola formazione sacerdotale, ma anche alla vigente statuizione canonica -. C'est pourquoi, depuis 1970, se déroulent au sein de la Fraternité Saint-Pie X des ordinations, depuis la tonsure jusqu'au sacerdoce, en passnt par les ordres mineurs, le sous-diaconat et le diaconat puisque, rappelons-le, la Fraternité Saint-Pie X célèbre la liturgie traditionnelle qui connait ces divers degrés vers le sacerdoce", ibid.
[68] Cit. da PFLUGER N., Le principe et le fondement de notre combat, in AA.VV., L'Eglise d'aujourd'hui, continuité ou rupture?, Parigi 2009, p. 260, n. 10.
[69] Dichiarazione del 21 nov. 1974, dopo una visita canonica di Roma; cf PFLUGER N., Le principe, cit., p. 261.l
[70] C'è un libro di Mons. LEFEBVRE M, Ils l'ont découronné. Du libéralisme à l'apostasie: la tragédie conciliaire, ed. Fideliter, Escurolles 1987, che dedica al Liberalismo conciliare e postconciliare la seconda, la terza e la quarta parte, da p. 109 a p. 251. E' un atto d'accusa "mozzafiato", che va dal "grande tradimento" alla "mentalità cattolico-liberale", dal "complotto satanico-liberale" al "trionfo del liberalismo cattolico", dal "liberalismo suicida" al suo rimedio: "instaurare omnia in Christo" e riedificare la cittadella cattolica".
Non si pensi a frasi sporadiche ed isolate: le ritrovo in altre pubblicazioni di Mons. Lefebvre, p. es. in Homélies: Eté chaud, ed. Saint-Gabriel, Martigny 1976; Le coup de maître de Satan: Ecône face à la persécution, ed. Saint-Gabriel, Martigny 1977; J'accuse le Concile, ed. Saint-Gabriel, Martigny 1976; ed inoltre una serie lunghissima di discorsi e di prediche.
[71] Mons. Lefebvre, Ils l'ont découronné, cit. p. 111 rimanda a DOM SARDA Y SALVANY, Le libéralisme est un peché, che a p. 257-258 cita a sua volta una lettera pastorale dell'episcopato equadoregno (15 luglio 1885) in cui si legge che "nell'ora presente il liberalismo è l'errore capitale delle intelligenze e la passione dominante del nostro secolo... un'atmosfera infetta che avvolge d'ogni lato il mondo politico e religioso...nemico gratuito, ingiusto e crudele della Chiesa...che falsa le idee, corrompe i giudizi, adultera le coscienze, indebolisce i caratteri, alimenta le passioni".
[72] Cita da LE FLOCH P., Le card. Billot, lumière de la théologie, p. 57, in LEFEBVRE M., Ils l'ont découronné, cit. p. 110.
[73] LEFEBVRE M., cit. p. 13-19. E' una fotografia: nessuno può negarne la realtà raffigurata.
[74] Ibid. p. 21-29.
[75] Ibid. p. 171-181.
[76] Disse cioè, stando a Georges de Nantes che lo riferisce in CRC, n. 113, p. 3, che la dichiarazione conciliare della libertà religiosa "ne dise matériellement autre chose que le Syllabus de 1864, et même à peu près le contraire des propositions 16, 17 et 19 de ce document". In realtà, né DH ripete quanto fu detto dal Syllabus del 1864, né il riconoscimento in essa d'un Antisillabo appartiene a Georges de Nantes. Teologi di ben altro calibro si pronunciaron in tal senso.
[77] Ibid. p. 183-185.
[78] GIOVANNI PAOLO II, Motuproprio "Ecclesia Dei afflicta", § 4, in DC 1967, p. 788.
[79] La restrizione insita in quest'aggettivo è significativa: non c'è fede se non dalla Bibbia!
[80] KEHL M., La Chiesa. Trattato sistematico d'ecclesiologia cattolica, tr. it. di A. Maffeis, ed. paoline, Cinisello Balsamo (Milano) 1995, p. 39. Sorprendente: l'autore a questo punto rimanda a Gadamer!
[81] Ibid. p. 154. Cf RAHNER K., Trasformazione strutturale della Chiesa come compito e come chance, Queriniana, Brescia 1973; BISER E., Die Galaubensgeschichtliche Wende. Eine theologische Positionsbestimmung, Graz 1986. Agl'inizi del 1900 BAINVEL J, in De magisterio vivo et traditione, Parigi 1904 spostava l'aggettivo "vivente" dalla Tradizione al Magistero; ma a quell'epoca quasi tutti facevan altrettanto. Peraltro, all'epoca delle discussioni ecclesiologiche precedenti l'enciclica "Mystici corporis", RANFT J. parlava un linguaggio già "conciliare" in La Tradition vivante. Unité et dévéloppement, contributo a L'Eglise est une, Miscellanea a Moehler, a c. di P. Chaillet, Parigi 1939, p. 102-126.
[81] Cf CONGAR Y. M.-J, La Tradizione , cit. p. 318 con documentazione a p. 398-409.
[82] Il fenomeno probabilmente fu facilitato dal fatto che, dopo l'integrazione dei "barbari" nel proprio seno, la Chiesa di Roma irrobustì la coscienza della propria autorità; più tardi, quando il gallicanesimo tentò d'indebolirla sottoponendola al rispetto dei "sacri canoni" e delle tradizioni, l'autorità discrezionale della Chiesa s'identificò, per così dire, con quei canoni e quelle tradizioni.
[83] PARENTE P., Nuove tendenze teologiche, in "L'Osserv. Romano" 9-10 febbraio 1942. Poco dopo gli faceva eco SALAVERRI I., Sacrae Theologiae Summa, I/III: De Ecclesia Christi, BAC, Madrid 1950, n. 805-806: espone e spiega perché la Tradizione non s'identifica col Magistero. Del resto, anche S. PIO X., nel decreto "Lamentabili" 3 luglio 1907, DS 3404 e 3405 sembra distinguere tra l'azione esplicatrice e propositiva del Magistero ecclesiastico e il complesso delle verità rivelate e trasmesse. Identica distinzione in PIO XI, Encicl. "Mortalium animos", 6 genn. 1928, in AAS 20 (19289 12-14.
[85] S. AGOSTINO, Serm. 176, 2, 2 PL 38,950.
[86] Cf CONGAR Y. M.-J., La Tradizione, cit. p. 340-341, con varia documentazione, p. es., PIGHI A., Traditio viva Hierarch. Eccl.cae assertio, Colonia 1538; HOSIUS che, secondo POLMAN P., L'élément historique dans la controverse religieuse du XVI siècle, Gembloux 1932, p. 307, parla di "evangelo vivente"; S. PIER CANISIO, Meditationes seu notae in evangelicas lectiones, pars I (1598), ed. Friburgo 1939, p. 184: "...non modo verbum scriptum...sed etiam verbum viva dumtaxat voce traditum".
[87] MÖHLER J., L'unità nella Chiesa. Cioè il principio del cattolicesimo nello spirito dei Padri della Chiesa dei primi tre secoli, tr., introd. e note di G. Corti, Città Nuova ed., Roma 1969, p. 314. Per questo, a p. 315, poteva così proseguire: "Non vi è che una sola tradizione, nella Chiesa, continua, ininterrotta, dal tempo degli apostoli fin ad ora; in essa conosciamo l'identità della nostra coscienza cristiana con quella di tutt'i tempi, perché noi possiam confrontare la nostra tradizione attuale con quella dei primi secoli".
[88] Ibid. p. 34.
[89] Cf CONGAR Y. M.-J., Note sur l'évolution et l'interprétation de la pensée de Möhler, in "Rev. de Scienc. Philos. et Théolog." 27 (1938) 205-212.
[90] MÖHLER J., Symbolik, cit. primo libro, cap. 5, §§ 36-43, p. 328-395.
[91] PETROCCHI M., Fénelon François de Salignac de la Mothe, in EC V, c. 1147. La voce va da c. 1146 a c. 1149.
[92] SAILER J. M., Grundlehren der Religion, Monaco 1805, p. 363; WIDMER J. (a c. di), Opera omnia, 41 voll., Salisburgo 1830-1845; Cf GEISELMANN J. R., Von lebendiger Religiosität zum Leben der Kirche, J. M. Sailers Verständnis der Kirche geschichtlich gedeutet, Stoccarda 1952; ID., Chiesa e spiritualità nei movimenti spirituali della prima metà del sec.XIX, in "Sentire Ecclesiam", tr. it., II. Roma 1964, p. 123-220.
[93] DREY J. S., Dissertatio historico-theologica de origine et vicissitudine exomologeseos in Ecclesia catholica, Ellwangen 1815; ID.,Vom Geist und Wesen des Katholizismus, in "Theologische Quartalschrift" 1 (1819) 8-28, 192-210, 369-391, 559-574; ID., Ideen zur Geschichte des katholischen Dogmensystem: Geist des Christentums und Ktholizismus, a c. di J. R. Geiselmann, Magonza 1940; cf GEISELMANN J. R., Die Glaubenswissenschaft der kathol. Tübinger Schule in ihrer Grundlegung durch J. S. Drey, ibid. III (1930) 49-117; ID., Die lebendige Überlieferung als Norm des christlichen Glaubens, Friburgo Br. 1959.
[94] HIRSCHER J. B., Über das Verhältnis des Evangelium zur theologischen Scholastik, Tubinga 1823; ID., Katechetik, Tubinga 1831 e 1842; ID., Die kirchliche Zustände der Gegenwart, Tubinga 1849; cf GHEISELMANN J. R., Lebendiger Glaube aus geheiligter Überlieferung, Magonza 1842.
[95] Che Geiselmann, in Lebendiger Glaube aus geheiligter Überlieferung, cit., studia unitamente ad A. Berlage e J. E. Kuhn, sostenendo la loro dipendenza nella dottrina sulla Tradizione da quella di Möhler.
[96] LAGRANGE J.-M., Le sens du Christinanisme d'aprés l'exégèse allemande, Parigi 1918; LEUBE M., Geschichte des Tübinger Stifts, Tubinga 1921-1936; parziali indicazioni sparse anche in RICCIOTTI G., Vita di Gesù Cristo, Milano 1940, p. 207-246.
[97] SCHAUF H., Carlo Passaglia und Clemens Schrader. Beitrag zur Theologiegeschichte des 19. Jahrhunderts, Roma 1938 (cf introduzione).
[98] Lo ricorda anche P. SEMERIA G., I miei ricordi oratorî, Milano-Roma 1927, p. 101-104, dove vengon fatti alcuni nomi, tra i quali quello insigne del card. F. Satolli. Ma fra quelli non rigorosamente romani non bisognerebbe dimenticare valorosi pensatori, teologi e storici come H. Hurter, J. Hergenröther, M. J. Scheeben, H. Denzinger ed altri ancora. Cf NEUFELD K. H., "Römische Schule". Beobachtungen und Überlegungen zur genaueren Bestimmung, in "Gregorianum" 63/64 (1982) 677-699.
[99] Ciò nonostante esiste sulla "Scuola Romana" ed i suoi campioni un'ingente bibliografia, ora favorevole se pur con riserve, ora fortemente critica. Si veda fra gli altri FILOGRASSI G., Teologia e filosofia nel Collegio Romano dal 1824 ad oggi, in "Gregorianum" 35 (1954) 512-540; VILLOSLADA R. G., Storia del Collegio Romano dal suo inizio (1551) alla soppressione della Compagnia di Gesù (1773), Roma 1954; ARÉVALO C. G., Some aspects of the thology of the Mystical Body of Christ in the ecclesiology of G. Perrone, C. Passaglia and C. Schrader, Roma 1959; KASPER W., Die Lehre von der Tradition in der Römischen Schule, Friburgo Br. 1962; VERGANO G., La forza della grazia. La teoria della causalità sacramentale di L. Billot, Cittadella ed., Assisi 2008, sp. p. 23-82.
[100] Queste le sue opere più importanti: PERRONE G., Praelectiones theologicae, 9 voll. Ratisbona 1854-185521; De immaculato B. V. Mariae conceptu an dogmatico decreto definiri possit disquisitio theologica, Milano 1852; L'idea cristiana della Chiesa avverata nel cattolicesimo, Genova 1862; Il Protestantesimo e la regola di fede, 3 voll. Genova 1862; Praelectiones theologicae de virtutibus fidei, spei et caritatis, Ratisbona 1865; Index alphabeticus analyticus rerum quae in universa theologia Ioannis Perrone continentur, Torino 1868.
[101] Cf "Handbuch der Dogmengeschichte" (a c. di M. Schmaus, J. Geiselmann e A. Grillmeier), Friburgo Br 1951ss, III, 3d, 93.
[102] Tra i molti che si son interessati a G. Perrone, un rilievo speciale spetta a KASPER W., Die Lehre von der Tradition, cit., sp. p. 29-181; CAVALLERA F., Le document Newman-Perrone et le developpement du dogme, in "Bulletin de Littérature Ecclesiastique" 47 (1946) 132-142, 208-225 (ricostruisce un momento di particolare importanza sul discusso tema, strettamente legato alla Tradizione, del progresso dogmatico, sul quale aveva già scritto LYNCH T., The Newman-Perrone Paper on developpement, in "Gregorianum" 16 /1935 / 402-477; e sul quale scriverà poi anche WILLAN F. M., John H. Newman and G. Perrone, in "Newman Studien", Norimberga 1954, p. 120-145. Nel lungo elenco di coloro che parlaron di G. Perrone non va dimenticato l'interesse dimostratogli da E. Hocedez, R. Aubert, A. Antón e, specialmente, da POTTMEYER H. J., Unfehlbarkeit und Souveranität. Die päpstliche Unfehlbarkeit im System der ultramontanen Ekklesiologie des 19. Jahrhunderts, Magonza 1975, sp. p. 285-290.
[103] Fra i suoi scritti, numerosissimi, si ricorda: PASSAGLIA C., Commentarius de praerogativis beati Petri apostolorum principis auctoritate divinarum litterarum comprobatis, Regensburg 1850; ID., Conférences prononcées dans l'Eglise du "Gesù" pendant le Carême de 1851, Roma 1852; ID., De Ecclesia Christi commentariorum libri quinque, 2 voll. Regensburg 1853-1856 (importantissimo anche per il nostro argomento); scrisse non poco anche di politica.
[104] Sul Passaglia cf KASPER W., Die Lehre von der Tradition, cit., p. 185-230; POTTMEYER H. J., Unfehlbarkeit, cit. p. 298-329; SCHAUF H., Carlo Passaglia und Clemens Schrader. Beitrag zur Theologie des 19. Jahrhunderts, Roma 1938; ANTÓN A., El Misterio de la Iglesia. Evolución histórica de las ideas ecclesiológicas, BAC, II. Madrid 1987, p. 297-308.
[105] SCHRADER C., De Unitate Romana commentarius, 1. Friburgo Br 1862; II. Vienna1968; Theses theologicae : serie 1-7. Vienna 1861-1869; serie 8, Poitiers 1874; De triplici ordine naturali, praeternaturali, supernaturali, Vienna 1864; De Deo creante, Poitiers 1875. In difesa del Syllabus fu parte dirigente nella stesura dei cinque fascicoli su Der Papst und die modernen Ideen, Vienna 1864-1867. SCHAUF H., oltre cinquant'anni fa, ripubblicò le sue Tesi ecclesiologiche: De corpore Christi mystico sive de Ecclesia Christi theses. Ekklesiologie des Konzilsxtheologen Cledmens Schrader, Friburgo Br. 1959.
[106] Su Schrader si può vedere SOMMERVOGEL C., Bibliothèque de la Compagnie de Jésus, 9 voll., Bruxelles-Parigi 1890-18002, con aggiunte successive di E.-M. Rivière ed altri, vol. VII, p. 912-914; STEINHUBER A., Geschichte des Collegium Germanicum, II: Friburgo Br. 1906, p. 511ss.; SCHAUF H., Carlo Passaglia u. Clemens Schrader, cit.
[107] Fra la sua ingente e validissima produzione spiccano: FRANZELIN G. B., De Eucharistiae sacramento et sacrificio, Roma 1868; De Sacramentis in genere, Roma 1868; De Deo trino secundum personas, Roma 1869; De divina Traditione et Scriptura, Roma 1870; De Deo uno secundum naturam, Roma 1870; ID., De Verbo incarnato, Roma 1870; ID., Theses de Ecclesia Christi. Opus posthumum, Roma 1887. Si tratta di manuali per la scuola, altamente scientifici, tutti onorati da molteplici edizioni.
[108] Sul Franzelin, si veda COURTADE G., J. B. Franzelin. Les formules que le Magistère de l'Eglise lui a empruntées, in "Recerch. de Scien. Relig." 40/II (1952) 317-325; GAAR F., Das Prinzip der göttlichen Tradition nach J.B. Franzelin, Regensburg 1973; ANTÓN A., El Misterio, cit. p. 313-317. Cf inoltre SOMMERVOGEL C., Bibliothèque, cit., III, 950-951; BONAVENIA G., Raccolte di memorie intorno alla vita dell'em.mo card. G. B. Franzelin, Roma 1887; FILOGRASSI G., La realtà oggettiva delle specie eucaristiche secondo il card. Franzelin, in "Gregorianum" 19 (1937) 395-409
[109] PARENTE P., Teologia, in EC XI, 1963.
[110] Vi accenna BOGLIOLO L., Il problema della filosofia cristiana, Morcelliana, Brescia 1959, p. 166-173.
[111] Cf BELLAMY J., La théologie catholique au XIXe siècle, Parigi 1904; MASNOVO A., Il neotomismo in Italia. Origini e prime vicende, Milano 1923; EHRLE F., Die Scholastik und ihre Aufgabe in unserer Zeit, Friburgo Br. 19332; FABRO C. Scolastica, in EC XI, 122-140; PIOLANTI A. (a c. di), La Pontificia Università Lateranense. Profilo della sua storia, dei suoi maestri e dei suoi discepoli, Roma 1963; ID., Pio IX e la rinascita del tomismo, Vaticano 1974.
[112] CORDOVANI M., Commemorazione di Mons. Salvatore Talamo, Roma 1933; PIOLANTI A., Talamo Salvatore, in EC XI, 1709-1710; ID., La filosofia cristiana in Mons. S. T., ispiratore dell' "Aeterni Patris", Vaticano 1986; ID. (a c. di e con sua introduzione), Salvatore Talamo: il rinnovamento del pensiero tomistico, Vaticano 1986.
[113] SOLERI C., Lepidi A., in EC VII, 1188-1189; SESTILI G., Il p. A. L. e la sua filosofia, Torino-Roma 1930; avversò l'ontologismo, come riconobbe anche Talamo, che pur gli preferiva Zigliara, cf PIOLANTI A., S. Talamo: il rinnovamento, cit. p. 106.
[114] IGNUDI S., Card. F. S., in PIOLANTI A. (a c. di ), La Pont. Univ. Lateranense, cit. p. 104-105; DE CAMILLIS M., S. F., in EC X,1964.
[115] FABRO C., P. R. Tabarelli, CPS, in PIOLANTI A (a c. di), La Pont. Univ. Lateranense, cit., p. 108-112: ID., T. R., in EC XI,1675-1676; GRABMANN M., Die Geschichte der scholastischen Methode, 1. Friburgo Br., 1909, p. 23.
[116] Un solo esempio: GARDEIL A., Le donné révélé et la théologie, Parigi 19322, p. I, cap. III-V.
[117] Cf COLOMBO G., La ragione teologica, ed. Glossa, Milano 1995, p. 182.
[118] Cf SMITH C., The end and meaning of religion, New York 1964.
[119] SEGRET. SINODO D. VESCOVI, Instrumentum laboris, Città del Vaticano 2008, p. 4
[120] Ibid. p. 3.
[121] Ibid. p. 9.
[122] Ibid., p. 73. Frasi come queste, prima del Vaticano II, avrebbero fatto i conti con l'allora Sant'Uffizio; oggi assurgon al livello di Magistero ufficiale!
[123] Cf DS 1862, 1868 e 3001.
[124] Cf DS 802; S. CIPRIANO, Ep. 73, 21 CSEL 3/II,795; PL 3,1169 A: "Salus extra Ecclesiam non est"; PIO XII, Ep. S. Officii ad archiep. Bostoniensem, 8.Aug. 1949, DS 3866.
[125] RIVA C., Aspetti generali della libertà religiosa, FAVALE A. (a c. di), La libertà religiosa nel Vaticano II, Torino-Leumann 19672, p. 174.
[126] Nel medesimo commento a c. di Favale, J. Hamer riporta il giudizio del relatore E. J. De Smedt contrario, per esigenze di dialogo, ad un esplicito fondamento teologico oltre a quello ontologico o naturale: "Per soddisfare il desiderio d'alcuni Padri, questa dottrina è stata esposta prima fondandola unicamente sulla dignità della persona umana, poiché quest'argomento può esser accettato da tutti, compresi i non-credenti. Nel paragrafo seguente, poi, tutta l'argomentazione è stata ripresa in maniera più radicale, insistendo sulla relazione dell'uomo con Dio", ibid. p. 92. Si noti bene, "relazione - sia pur radicale - dell'uomo con Dio", non significa fondazione biblica.
[127] Ibid. p. 219-222.
[128] PIO IX, Syllabus, 8 dic, 1864, proposizioni 15 e 16, DS 2915-2916. A chi si permise di qualificare "pestifero" il Syllabus di Pio IX, ricordo il pensiero di un "malpensante. Domenico Giuliotti (1877-1956) che, nel suo capolavoro, parlò del "cristianesimo vero, quello della Chiesa, la cui ultima voce più potente esplose col "Sillabo", in GIULIOTTI D., Pensieri di un malpensante, Roma 1984, n. 1613
[129] GREGORIO XI, Encicl. "Mirari vos", 16 ag. 1832, n. 1613
[130] S. AGOSTINO, Ep 105 (166), 2, 9 PL 33,399.
[131] Significativo il fatto che l'edizioni postconciliari del Denzinger non riportano questa parte della "Quanta cura", evidente essendo il suo stridore con la dottrina del Vaticano II e soprattutto con la sua esasperazione postconciliare. Il testo però si trova nelle precedenti edizioni, p. es. in DENZINGER-HUMBERG, Herder-Barcelona 1951, 1689-1690.
[132] S. GREGORIO MAGNO, Ep. 164 (133), 2 PL54,1149 B.
[133] CCC 2105, poi cit. da PONT. CONSIGLIO D. GIUST. E D. PACE, Compendio della dottrina sociale della Chiesa, LEV-Città del Vaticano 2004, n. 422 p. 229.
[134] S.TOMMASO, I/2, 105, 1: "Optima ordinatio principum est in aliqua civitate vel regno, in quo unus praeficitur secundum virtutem qui omnibus praesit; et sub ipso sunt aliqui principantes secundum virtutem".
[135] LEONE XIII, Encicl. "Satis cognitum", 28 giugno 1896, DS 3309. Cf PIO XII, Encicl. "Mystici corporis" 29 giugno 1943, in AAS (1943) 212: "Episcopi non plene sui iuris sunt, sed sub debita R. Pontificis auctoritate positi, quamvis ordinaria iurisdictione fruantur, immediate sibi ab eodem Pontifice Summo impertita". Da notare a questo riguardo il cambiamento operato dal Vaticano II, che fa dipendere dall'ordinazione episcopale anche la giurisdizione, non però il suo esercizio: Nota praevia, n. 2: "In consecratione datur ontologica participatio sacrorum munerum...Ut vero talis expedita potestas habeatur, accedere debet canonica seu iuridica determinatio": un modo diverso per ripetere "non plene (plane) sui iuris". Va infine osservato che l'affermazione della sostanziale differenza fra la potestà del Papa e quella dei vescovi, sia pure collegialmente considerati, affonda le sue radici nel primato del Romano Pontefice e nel Magistero della Chiesa: cf CONC. FLORENT., Decr. "Pro Graecis et Armeniis", 6 luglio 1439, DS 1307: "...Romanum Pontificem in universum orbem tenere primatum...totius Ecclesiae caput et omnium Christianorum patrem ac doctorem exsistere". E' l'eco di quanto già il CONC. LUGDUNENSE II del 1274 DS 861: "...summum et plenum primatum et principatum super universam ecclesiam obtinet", al quale "potest gravatus quilibet super negotiis ad ecclesiasticum forum pertinentibus appellare et in omnibus causis ad examen ecclesiasticum spectantibus ad ipsius iudicium recurri".
[136] CONC. OECUM. VATIC: I, costituzione "Pastor aeternus", 18 luglio 1870 DS 3064. Il noto PALMIERI D., Tractatus de Romano Pontifice, Roma 1887 (in IV ed. riveduta e corretta da G. Filograssi, 1931) difende la pienezza della potestà primaziale nel senso non solo positivo, d'un potere cioè che "per suo diritto ordinario s'estende a tutto nei confronti di tutti", ma anche esclusivo d'una pienezza che "o formalmente o virtualmente comprenda ogni potestà con cui la Chiesa vien governata e che pertanto è la sorgente immediata della giurisdizione episcopale", p. 207-210.
[137] S. BERNARDO, De consider. 2,8 PL 182, 751

Nessun commento:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.