mercoledì 7 marzo 2012

La cosidetta morte cerebrale: una “caccia agli organi”?



di Don Giuseppe Rottoli

Mercoledì 3 settembre 2008, sul quotidiano L’Osservatore Romano apparve un articolo di Lucetta Scaraffia, professoressa, Membro del Comitato nazionale di bioetica dal titolo: “A quarant’anni dal rapporto di Harvard - I segni della morte”. Leggiamo all’inizio di questo articolo: «Quarant’anni fa verso la fine dell’estate del 1968, il cosiddetto rapporto di Harvard cambiava la definizione di morte basandosi non più sull’arresto cardiocircolatorio, ma sull’encefalogramma piatto: da allora l’organo indicatore della morte non è più soltanto il cuore, ma il cervello.
Si tratta di un mutamento radicale della concezione della morte – che ha risolto il problema del distacco dalla respirazione artificiale, ma che soprattutto ha reso possibili i trapianti di organi – accettato da quasi tutti i paesi avanzati (dove è possibile realizzare questi trapianti) […]. La giustificazione scientifica di questa scelta risiede in una peculiare definizione del sistema nervoso, oggi rimessa in discussione da nuove ricerche, che mettono in dubbio proprio il fatto che la morte del cervello provochi la disintegrazione del corpo […]. Naturalmente, in proposito si è aperta nel mondo scientifico una discussione, in parte raccolta nel volume, curato da Roberto de Mattei, Finis vitae. Is brain death still life? (ed. Rubbettino), i cui contributi - di neurologi, giuristi e filosofi statunitensi ed europei – sono concordi nel dichiarare che la morte cerebrale non è la morte dell’essere umano. Il rischio di confondere il coma (morte corticale) con la morte cerebrale è sempre possibile. E questa preoccupazione venne espressa al concistoro straordinario del 1991 dal Cardinal Ratzinger nella sua relazione sul problema delle minacce alla vita umana: “Più tardi, quelli che la malattia o un incidente faranno cadere in un coma ‘irreversibile’, saranno spesso messi a morte per rispondere alle domande di trapianti d’organo o serviranno, anch’essi, alla sperimentazione medica (‘cadaveri caldi’)” […]. La Ponficia Accademia delle scienze – che negli anni Ottanta si era espressa a favore del rapporto di Harvard – nel 2005 è tornata sul tema con un convegno su ‘I segni della morte’».
Questo articolo è stato stimolato anche dal libro del professor Paolo Becchi pubblicato recentemente, Morte cerebrale e trapianto di organi, (ed. Morcelliana) (1). Nel presente articolo non potremo trattare tutto l’argomento, ci limitiamo a dare alcune citazioni per permettere, a chi ne è interessato, un approfondimento.

IL NOCCIOLO DEL PROBLEMA
Il prof. Evers, nel già citato libro Finis Vitae (2) afferma: «Dire che un paziente collegato alla ventilazione artificiale e dichiarato “cerebralmente morto” è un corpo che sicuramente morirà e pertanto non è più una persona, contrasta con la realtà. Si deve usare la massima attenzione a non dichiarare morta una persona, anche un momento prima del fatto, in quanto sarebbe una fondamentale ingiustizia. Una persona che sta morendo è ancora viva, anche un momento prima della morte, e deve essere trattata come tale. Per concludere, crediamo che ci possa essere la distruzione dell’intero encefalo, ma non sono stati individuati criteri che siano stati stabiliti per determinarla in modo affidabile. Una cessazione della funzione cerebrale non è la stessa cosa della distruzione. Nella situazione attuale della medicina, un paziente con distruzione dell’intero encefalo è, al massimo, soltanto ferito mortalmente, ma non ancora morto. La morte non dovrebbe essere dichiarata a meno che non ci sia la distruzione dei sistemi respiratorio, circolatorio e dell’intero encefalo».
Alle stesse conclusioni arrivano altri esperti, ad es. il prof. Wanatabe (3) scrive: «Lo stato della morte cerebrale al massimo rappresenta la “predizione della imminente morte di una persona”, ma assolutamente non la “conferma della morte”, cosa che anche i suoi sostenitori peraltro ammettono».
A pagina 107 del suo libro, il prof. Becchi cita un famoso neurologo: «Ciò che in tal modo Shewmon(4) mette radicalmente in discussione è la tesi secondo cui l’encefalo è l’organo responsabile dell’integrazione delle parti corporee che rendono l’organismo un tutto organizzato e funzionante. Su questa tesi si è costruita la giustificazione della morte cerebrale: la cessazione delle funzioni dell’encefalo determinerebbe la disintegrazione dell’organismo che abbandonato a se stesso, diverrebbe una mera collezione di organi. Contro questa teoria Shewmon avanza la propria tesi: “il sistema critico” del corpo non è localizzabile in un singolo organo sia pure importante come l’encefalo».

ORGANI FRESCHI
Per poter effettuare i trapianti di organi dispari, occorrono organi freschi che non si possono ottenere da chi è già cadavere, altrimenti falliscono subito. Questa verità ce la confermano tutti gli esperti; per es. il dott. Hill (5) scrive: «Dopo la morte, e talvolta persino prima, gli organi e i tessuti cominciano a degenerare. Alcuni di essi, come le cornee, possono rimanere vitali per molte ore dopo la morte determinata dall’arresto cardiopolmonare. Altri, come il cuore, i polmoni ed il fegato si deteriorano così rapidamente che devono essere espiantati da corpi vivi… I primi tentativi di impiegare organi oltre alle cornee ed ai reni, prelevati dai cadaveri fallivano, perché tali organi non ricuperavano le funzioni dopo il periodo di ischemia calda (cioè dopo la cessazione della circolazione, n.d.r.). Il cambiamento nella certificazione della morte attraverso il test del tronco encefalico, consentito nel 1979, facilitò i trapianti di cuore, polmone e fegato rendendo possibile la rimozione di organi vitali prima che venissero spente le macchine per il supporto artificiale – senza il rischio di conseguenze legali che avrebbero altrimenti accompagnato tale procedura».
Lo stesso discorso vale per le altre certificazioni di “morte cerebrale” accertate con altri sistemi clinici (EEG, angiografia, ecc.) come vedremo in seguito citando altri dottori o professori.
Anche il prof Weaver (6) conferma: «Dal momento che gli organi prelevati da un paziente non sono più adatti all’impianto in un altro soggetto appena qualche minuto dopo la “vera” morte, questi organi devono essere ottenuti da un paziente in vita (“donatore”), il cui cuore e polmoni intatti continuano a nutrire e quindi a proteggere gli organi vitali dalla disintegrazione che li renderebbe inutilizzabili per il trapianto. Ovviamente rimuovere gli organi vitali (quali il cuore, entrambi i polmoni, il fegato, entrambi i reni, il pancreas, l’intestino tenue ecc.) causerà la morte del ‘donatore’».

LA VITA, L’ANIMA E LA MORTE
Quando san Tommaso definisce la vita e dunque correlativamente la morte, riprende la definizione (analogica) di Aristotele: «La vita è un movimento che viene dall’interno - Vita est motus ab intrinseco» (7). Ciò che distingue gli esseri inanimati dagli esseri animati (vegetali, animali e uomo, n.d.r.) è che il principio del loro movimento viene dall’interno e non è imposto loro dall’esterno. Quando una pietra si muove è perché essa è stata mossa da qualcuno o da qualcosa. Invece, il vivente ha in se stesso la sorgente del suo movimento (spostamento, nutrizione, crescita, riproduzione) (cfr. Courrier de Rome, giugno 2008).
Il principio che dà la vita agli esseri animati è l’anima e, come ci conferma il prof. Byrne, non è il cervello a rendere viva una persona ma l’anima (8).
Da parte sua il prof. P. Pasqualucci deduce: «Il permanere di tanti molteplici “segni di vita” (come rivedremo tra qualche paragrafo, n.d.r.) nei pazienti “cerebralmente morti”, fa inoltre ritenere che ci sia una dimensione della coscienza più profonda di quella lesa gravemente dal danno cerebrale, dimensione che rinvia all’esistenza di ciò che si è sempre chiamato anima».
“Per san Tommaso d’Aquino che segue Aristotele – spiega il prof. Potts (9) - l’anima è integralmente legata nel corpo. Egli ritiene che “l’anima umana è la forma del corpo (Summa Theol. I, q. 76, a. 1). Per l’Aquinate la forma è il principio dell’essere, dell’attualità, mentre la materia è il principio della potenzialità. L’anima è il nome della forma delle cose viventi, incluse le piante e gli animali non umani, che serve come principio di vita e di ogni attività in ogni organismo. L’anima nell’uomo, precisa il professore, è la parte spirituale che rende il corpo un corpo umano e dà forma, vivifica, sviluppa, unifica e fonda le funzioni biologiche del corpo. Dal momento che essa anima e unifica l’intero corpo, non solo una particolare parte del corpo, l’anima è nella totalità del corpo”.
Il neurologo Shewmon (10) ci ricorda che: «Nella tradizione aristotelica-tomistica, l’anima umana non è semplicemente uno spirito, ma la “forma sostanziale” o principio vitale del corpo. Rispetto alle anime delle piante e degli animali l’anima dell’uomo possiede una dimensione spirituale che è il fondamento ultimo degli atti ibridi spirituali/fisici (che implicano necessariamente l’attività cerebrale ma sono intrinsecamente irriducibili alla sola attività fisica del cervello), come l’autocoscienza, la formazione di concetti astratti e di volizione […]. L’anima umana utilizza il cervello come strumento per le corrette funzioni mentali umane, ma è essa stessa il fondamento per quegli aspetti spirituali immateriali del funzionamento mentale che sono intrinsecamente irriducibili all’attività elettrochimica o ad altre attività fisiche del cervello».
«La morte non può identificarsi con il venir meno delle funzioni cerebrali – ha affermato il prof. Byrne – devono cessare anche quelle respiratorie e circolatorie perché un paziente possa qualificarsi come morto. Infatti non è il cervello a rendere viva una persona bensì l’anima. Se la scienza giuridica e medica, non solo occidentale, ha da sempre ritenuto che la morte dovesse essere accertata attraverso la cessazione dell’attività cardiocircolatoria e respiratoria è perché l’esperienza dimostra che all’arresto di tali attività fa seguito, dopo alcune ore, il rigor mortis (rigidità cadaverica) e quindi l’inizio della disgregazione del corpo» (11).
Il prof. Seifert riassume bene: «La più sorprendente prova empirica a sostegno della tesi che la mente non può essere incarnata esclusivamente negli emisferi cerebrali è fornita da studi intrapresi da David Alan Shewmon su bambini idroanencefalici, nei quali è stato dimostrato che anche il tronco encefalico può assumere alcune delle funzioni degli emisferi cerebrali» (12).

ALCUNE CONTRADDIZIONI
Il prof. R. Weber (13) afferma: «C’è un’evidente autocontraddizione. Da una parte il concetto di morte cerebrale è basato sulla cessazione irreversibile di tutte le funzioni cerebrali, che sono viste come la “condizione fisica insostituibile di tutta la vita emotiva e fisica. Dall’altra parte, i pazienti in coma manifestamente irreversibile e i bambini anencefalici vengono ritenuti vivi nonostante abbiano perso in maniera irreversibile, o forse non abbiano mai avuto, “esperienze coscienti specificatamente umane”. Lo stato vegetativo persistente viene visto come uno “stato di vita vegetativa”. Questi pazienti vivono interamente senza le condizioni fisiche per una vita emotiva o psichica, e malgrado tutto si è concordi sul fatto che essi sono vivi. Eppure questo rompe completamente con il fondamento del concetto di morte cerebrale, vale a dire il cervello come condizione dell’intera vita emotiva e psichica».
Nella sua relazione il giudice Beckmann (14) puntualizza: «Se la perdita delle funzioni cerebrali implica l’assenza dello spirito umano, e se tale assenza consente di dichiarare la morte dell’essere umano, allora anche gli embrioni umani si potrebbero ritenere “morti” fino a che l’encefalo non si è sviluppato. Ma ciò non è plausibile. L’embrione allo stadio iniziale non è morto, è decisamente vivo, così da generare un encefalo».
Anche il prof. Shewmon conclude: «Le piante e gli embrioni non hanno un organo di integrazione centrale; l’integrazione è piuttosto un fenomeno emergente chiaramente non localizzabile che coinvolge l’interazione reciproca tra tutte le parti» (15).

OLTRE VENT’ANNI IN STATO DI MORTE CEREBRALE
Il prof. Becchi (16) riporta il caso studiato dal prof. Shewmon: «Lasciate che vi illustri il caso di TK, colui che detiene il record di sopravvivenza. All’età di 4 anni egli contrasse la meningite, che causò un aumento della pressione intracranica al punto che le ossa del cranio del bambino si divisero. Esami multipli sulle onde cerebrali diedero risultati negativi e nei successivi 14 anni e mezzo non sono stati osservati né respirazione spontanea né riflessi del tronco cerebrale. I medici suggerirono di interrompere il supporto vitale, ma la madre non ne volle sapere. Il decorso iniziale fu molto variabile, ma alla fine fu trasferito a casa, dove egli resta collegato ad un ventilatore, assimila il cibo che arriva allo stomaco attraverso un sondino, urina spontaneamente, e richiede poco più di un’assistenza infermieristica. In stato di “morte cerebrale” egli è cresciuto, ha superato infezioni e le sue ferite si sono rimarginate. La madre di TK mi diede il permesso di esaminare il ragazzo e di documentare fotograficamente ogni cosa. Mi convinsi che egli non aveva nessuna funzione del tronco cerebrale. La pelle del suo viso e della parte superiore del torso, tuttavia, si chiazzò quando pizzicai varie parti del suo corpo, aumentarono la frequenza cardiaca e la pressione sanguigna. Questa risposta agli stimoli, mediata dal midollo spinale, non potè essere suscitata a livello del viso, i cui impulsi sensoriali vengono elaborati nel tronco cerebrale, assente nel ragazzo. Ad ulteriore conferma della diagnosi, i potenziali evocati non mostrarono risposte corticali o del tronco, un angiogramma a risonanza magnetica non mostrò flusso sanguigno intracranico, una risonanza magnetica rivelò che l’intero cervello, incluso il tronco, era stato sostituito da un’ombra di tessuti e da fluidi proteici disorganizzati. TK ha molto da insegnare a proposito della necessità del cervello per l’unità integrativa somatica».
Lo stesso prof. Shewmon (17) riferisce: «TK spirò dopo 20 anni e mezzo in stato di morte cerebrale. Fu eseguita soltanto un’autopsia dell’encefalo, con dati particolarmente interessanti che confermarono in maniera definitiva la distruzione dell’intero encefalo e del tronco encefalico. Sono contento che l’autopsia e le pubblicazioni siano stati opera di medici con cui non ho avuto alcun rapporto e che non avevano uno speciale interesse per la morte cerebrale. E’ chiaro dalle loro scelte di parole ciò che tutti e quattro i coautori consideravano fosse lo stato di vita/morte di TK. E’ morto all’età di 24 anni per complicanze della meningite tipo B dell’H. Influenzae contratta a quattro anni e mezzo […]. I reperti patologici dell’autopsia confermarono che il suo encefalo era stato distrutto dagli eventi associati all’episodio della meningite di tipo B e dell’H. Influenzae, mentre il corpo era rimasto vivo (morte cerebrale con un corpo vivente) per altri due decenni, una durata di sopravvivenza successiva alla morte cerebrale che supera di molto quella di ogni altro rapporto» (18).
«Anche se l’encefalo è distrutto – conclude il prof. Shewmon – rimane ancora il resto del sistema nervoso: il midollo spinale con le sue funzioni integrative intrinseche e la sua rete di comunicazione a doppio senso con quasi tutte le altre parti del corpo attraverso i nervi periferici e autonomi. Per il semplice fatto che queste parti del sistema nervoso non sono associate direttamente alle funzioni mentali, non dovrebbero essere sottovalutate in merito al loro ruolo nel mantenimento di un “organismo come un tutto» (19).

COMA CEREBRALE E CORPO VIVO
Citiamo le relazioni di alcuni professori riguardo al fatto che la vita nei cosiddetti “morti cerebrali”, nonostante le apparenze, continua.
Scrive il prof. P. Byrne (20): «Quando un paziente ha una lesione o una patologia cerebrale, per la quale è richiesto il trattamento con il ventilatore (comunemente anche detto, in modo non esatto, respiratore), il ventilatore muove l’aria, l’ossigeno e l’anidride carbonica. Lo scambio di ossigeno e anidride carbonica è intrinseco al sistema respiratorio. La circolazione è intrinseca al cuore e al sistema circolatorio. Perché la vita della persona sia supportata da un ventilatore, molti organi e sistemi, compresi fegato e reni, devono essere integri e normalmente funzionati. Il medico ha il privilegio di esaminare e trattare quel paziente e di prenderne cura. Il medico non deve uccidere, non deve fare del male e non deve accelerare la morte.
La guarigione si verifica soltanto nei viventi. Appena si crea una lesione esogena o endogena in un tessuto, nel tessuto connettivo vascolarizzato avviene una complessa reazione di guarigione chiamata infiammazione. La guarigione comincia immediatamente nel sito della lesione. Occorrono neutrofili, eosinofili, linfociti, basofili e piastrine. Gli ormoni prodotti come parti del sistema endocrino sono portati sul sito della lesione dal sistema circolatorio. I prodotti originatisi con la lesione vengono raccolti e trasportati dalla circolazione al fegato, milza e reni per la disintossicazione ed escrezione. L’infiammazione è seguita dalla rigenerazione. La guarigione avviene soltanto nei vivi con un sistema circolatorio integro e funzionate. Non ci può essere vera guarigione dopo la vera morte. La guarigione è riscontrabile nei pazienti dopo la dichiarazione di “morte cerebrale”, ma prima dell’asportazione degli organi vitali. Ad esempio, se un taglio venisse eseguito attraverso la pelle nei tessuti sottocutanei di un paziente “cerebralmente morto” prima dell’asportazione degli organi vitali, si avrebbe sanguinamento dalla ferita e la guarigione inizierebbe immediatamente, perché quel paziente non sarebbe veramente morto. Se fosse veramente morto e se gli fosse fatto un taglio attraverso la pelle fino al tessuto sottocutaneo, ci sarebbe trasudazione di fluido, ma non sanguinamento attivo. Il processo di guarigione non avverrebbe mai, perché non ci sarebbe la circolazione a condurre le cellule guaritrici dei globuli bianchi e gli ormoni sul luogo della lesione e né alcun modo per eliminare i prodotti di scarto per la disintossicazione ed escrezione. Non ci sarebbero cellule vive a riunire insieme i tessuti. La guarigione avviene nelle persone dichiarate “cerebralmente morte”, ma non si verifica mai dopo la vera morte».
Il neurologo statunitense Shewmon afferma (21): «Ma i corpi di TK e di altri sopravissuti di lunga durata in condizioni di morte cerebrale mostrano molte proprietà olistiche (Olismo: teoria secondo cui l’organismo costituisce una totalità organizzata non riconducibile alla semplice somma delle parti componenti), come ad esempio una complessa omeostasi di centinaia, se non di migliaia, di sostanze chimiche interagenti ed enzimi, assimilazione di elementi nutritivi ed eliminazione degli scarti, crescita proporzionata, mantenimento della temperatura corporea (benché inferiore al normale e con l’aiuto di coperte), guarigione delle ferite, superamento delle infezioni, capacità di ricupero da malattie serie abbastanza da richiedere ricovero ospedaliero e successive dimissioni, risposte sistemiche allo stress e a stimoli nocivi, equilibrio di risposta delle varie funzioni endocrine e così di seguito. Tra i casi oggetto del mio studio un ragazzo di 13 anni, da me personalmente visitato in una struttura infermieristica specializzata, raggiunse la pubertà durante la morte cerebrale».

LA QUESTIONE DELL’ANESTESIA
Il Dr. Hill afferma: «È sempre necessario paralizzare il donatore a cuore battente per evitare movimenti e rendere possibile l’intervento chirurgico, e la maggior parte (ma non la totalità) degli anestesisti somministra la stessa anestesia generale che impiega per qualsiasi altra operazione importante su un paziente vivo. Altri, a causa del paradosso di anestetizzare un paziente ormai certificato come morto, evitano l’anestesia ma controllano le risposte con altri farmaci non anestetizzanti. Anche Pallis e Harley, i quali ritengono che la morte del tronco encefalico sia la vera morte scrivono: “I donatori di organi dovrebbero ricevere l’anestesia esattamente nello stesso modo di un paziente sensibile… Un’anestesia adeguata dovrebbe anche placare qualunque paura di sensibilità residua”.
Non dovrebbe di certo esserci bisogno di placare simili paure, ma esse chiaramente esistono nella mente di alcuni anestesisti e del personale della sala operatoria così come dei parenti dei pazienti. Non è naturale osservare così tanti segni di vita in qualcuno che si presuppone essere morto. Come è stato osservato da altri, nessun patologo eseguirebbe subito un esame post mortem su un corpo così reattivo; nessun impresario di pompe funebri lo seppellirebbe o cremerebbe» (22).
Il neurologo C. Coimbra nella sua relazione (23), dopo diverse considerazioni è giunto a dire: «Questo fatto ci ha portato alla conclusione che una qualche vitalità può essere sempre nascosta e conservata nelle profonde strutture cerebrali nel momento in cui il cerebro è morto. Perciò, la definizione di “morte cerebrale” dovrebbe essere forse applicata alla morte del cerebro piuttosto che all’intero sistema nervoso centrale».

I SEGNI DI LAZZARO
Come abbiamo appena citato i cosiddetti “morti cerebrali” durante le incisioni per gli espianti se non sono anestetizzati e curarizzati muovono gli arti, questi movimenti, come testé ricordato, sono chiamati segni di Lazzaro, le reazioni dei presenti sono impressionanti, ne citiamo qualcuna.
Per esempio il prof. Spaemann (24) riporta: «Quando un’anestesista tedesca scrive: “Le persone con cervello lesionato non sono morte ma morenti” e che dopo trent’anni di professione non si è potuta convincere del contrario di ciò che effettivamente vedeva, la sua dichiarazione vale per molti altri… Una di questa infermiere scrive: “Quando sei lì e un braccio si alza e tocca il tuo corpo o lo abbraccia, è terribile”».
Il dott. Beckmann (25) scrive: «Un organismo cerebralmente morto reagisce in modi limitati agli stimoli esterni. Ad esempio, la pressione del sangue aumenta dopo la prima incisione del chirurgo, che inizia l’espianto di un organo. Per questo motivo ai donatori di organi, prima dell’espianto vengono somministrati farmaci per il rilassamento muscolare. Altre reazioni di persone cerebralmente morte sono la cosiddetta “sindrome di Lazzaro” (movimenti degli arti) o l’afferrare le infermiere quando sollevano la testa dei pazienti per sistemare i cuscini».
Anche il prof. Weaver non può negare la realtà (26): «In tale situazione non ero l’unico operatore sanitario costretto a considerare ed analizzare la condizione del “donatore”. Un’infermiera dell’unità, in forma privata e in lacrime, si lamentò con me: “Ma è ancora vivo!” Molti dei miei colleghi cardiologi col tempo sono divenuti abbastanza perplessi a proposito della rimozione di organi vitali e non credono che il fine giustifichi i mezzi. Uno di essi mi comunicò la propria opinione. “Il conseguimento di un “bene” non giustifica l’uccidere”».

TESTIMONIANZE
La verità è come l’olio posto nell’acqua viene sempre a galla, non possiamo nasconderla, ci sarà sempre qualcuno che ce la ricorderà; questa realtà ce lo prova il fatto che in tutto il mondo ci sono persone che non possono far tacere la loro coscienza riguardo alla cosiddetta “morte cerebrale”.
Riportiamo parte della conferenza del dott. Joseph Evers (27) all’Istituto Pontificio: «Quindici anni or sono mi fu chiesto di presiedere, presso il nostro ospedale locale, “un Sottocomitato di Terapia Intensiva Pediatrica per la revisione del protocollo da noi impiegato per la diagnosi della morte cerebrale nei bambini, in vista della rimozione degli organi vitali e del successivo trapianto. È stata la prima volta in cui sono stato costretto ad affrontare le questioni scientifiche, legali e morali che riguardavano la “morte cerebrale”. Se avessi approvato una raccomandazione del protocollo per autorizzare la rimozione di organi ai fini del trapianto, avrei saputo che con la mia approvazione avrei in effetti affermato di essere certo al di là di ogni (ragionevole) dubbio che una persona dichiarata “cerebralmente morta” era, di fatto, morta e che il principio vitale (l’anima immortale) si era separata dal corpo. Se così stavano le cose, allora sarebbe stato moralmente permissibile rimuovere dal deceduto organi vitali, per esempio il cuore, a scopo di trapianto.
Votare l’approvazione mentre rimaneva il dubbio sarebbe stato moralmente reprensibile da parte mia, in quanto avrebbe significato sancire la possibile uccisione di una persona per il potenziale bene di un’altra. A prescindere da quanto sarebbe stato apprezzabile il fine inteso, i mezzi adottati sarebbero stati una violazione del quinto comandamento, “non uccidere”.
Per sciogliere ogni dubbio sulla questione iniziai una ricerca nella letteratura e un dialogo con colleghi stimati…
In merito sull’argomento, sul “Journal of the American Medical Association” del 1982 era uscito un articolo che riportava il caso di una ventiquattrenne incinta che era stata dichiarata “cerebralmente morta” il diciannovesimo giorno di ricovero in ospedale. Era poi stata mantenuta collegata alle apparecchiature per la ventilazione artificiale per altri cinque giorni e proprio prima della vera morte, mediante taglio cesareo diede alla luce un bimbo sano alla ventinovesima settimana di gestazione. Dopo aver letto questo articolo mi dovetti domandare se, in caso ciò fosse stato vero, non avrei forse dovuto anche sostenere la possibilità per un “cadavere” di nutrire il bambino ancora ospitato in grembo e poi di farlo nascere sano molti giorni dopo. Commentando il fatto, i dottori Siegler e Wikler dissero: “La morte dell’encefalo non sembra servire come confine; è una perdita tragica e infine fatale, ma non è per se stessa la morte. La morte corporea avviene successivamente, quando cessa il funzionamento integrato”…
Non potevo più evitare la verità: o collegato alle macchine per la ventilazione artificiale c’era un cadavere, o c’era una persona ancora viva, sebbene “cerebralmente morta”. Se era un cadavere, ci si sarebbe dovuti riferire a lui come a un cadavere vivente? Ma come il cerchio quadrato, è una contraddizione in termini. Si può avere l’uno o l’altro, ma non entrambi. La conclusione è ovvia; una persona viva mortalmente ferita non equivale a una persona morta. Se la dichiarazione di “morte cerebrale” diventa un segnale per la rimozione di un cuore che ancora batte, allora senza ombra di dubbio il paziente morirà.
Per consolidare ulteriormente il mio ragionamento ci volle una tragedia, capitata ad una mia cara amica; uno dei suoi due figli adulti ebbe un incidente automobilistico quasi mortale e venne portato di urgenza al più vicino pronto soccorso. I medici fecero di tutto per rianimarlo, ma inutilmente, ed egli fu dichiarato “cerebralmente morto”. Per come mi ricordo, da diverso tempo era lontano dai Sacramenti della Chiesa, ma l’altro figlio della donna, un sacerdote, si precipitò al capezzale del fratello e gli impartì il Sacramento dell’Estrema Unzione. Poco dopo questo segno della misericordia di Dio, il supporto vitale venne staccato e l’uomo spirò.
Non molto tempo dopo questo evento dovetti riflettere su una richiesta per il trapianto degli organi vitali fatta dopo l’Estrema Unzione. Mi chiesi allora: come si potrebbe fare una cosa del genere? Per impartire in maniera valida e ricevere in modo efficace questo sacramento si deve presumere che la persona sia viva. Per rimuovere un organo vitale, per esempio un cuore che batte, deve invece essere certamente morta. La conclusione era ovvia, non c’era una cartina di tornasole per il momento esatto di separazione dell’anima immortale dal corpo. Né un medico né un teologo lo possono stabilire. Detti le dimissioni dal Sottocomitato per il protocollo. Votai contro l’adozione del protocollo e quindi, davanti a tutto il personale medico, dissi ai miei colleghi perché lo avevo fatto e perché mi auguravo che anche loro votassero contro. Alcuni lo fecero, ma non in numero sufficiente ed il protocollo venne adottato.
Subito dopo questa riunione un mio collega, un neurologo di cui ho molto rispetto e che veniva spesso consultato per le diagnosi cliniche di “morte cerebrale” in casi di bambini donatori dai quali prelevare gli organi per il successivo trapianto, mi si avvicinò e mi disse, “Sai Joe, hai ragione, noi facciamo solo finta di non vedere”».
Il neonatologo prof. Paul Byrne (28) racconta: «Nel 1975 prestai assistenza ad un neonato nel reparto di terapia intensiva neonatale al Cardinal Glennon Memorial Hospital for Children di St Louis in Missouri. Joseph era collegato al ventilatore da sei settimane. Erano stati fatti molti tentativi per disabituarlo al ventilatore. Non respirava spontaneamente. Fu eseguita una registrazione dell’attività elettrica (EEG). Fu interpretata come “coerente con la morte cerebrale”. Due giorni dopo l’EEG non era cambiato. Fu suggerito di scollegare il bambino dall’apparecchiatura. Tuttavia continuai a mantenerlo collegato al ventilatore. In seguito egli è stato in grado di disabituarsi al ventilatore ed è stato anche dimesso dall’ospedale. È cresciuto e si è sviluppato in modo normale, è andato a scuola, con eccellente rendimento; ha praticato la corsa su pista ed il baseball. Da adulto ha lavorato dieci anni come paramedico ed ora fa il vigile del fuoco a St Louis in Missouri. Oggi ha circa trent’anni».

CANDIDATI ALLA DONAZIONE E… ALLA VIVISEZIONE?
Il prof. Weaver (29) ebbe questa esperienza: «Un esempio di urgenza e fretta è meglio illustrato da una telefonata che ho ricevuto da un sacerdote del Nebraska occidentale nel dicembre 2004: nel tardo pomeriggio del martedì un abitante di una piccola cittadina era caduto da una scala ed aveva subìto una lesione cerebrale. Fu rapidamente trasferito in un ospedale cattolico di Omaha per ulteriori cure avanzate, ma 18 ore dopo la caduta (le 14.00 del giorno seguente) fu sottoposto a prelievo degli organi dopo la dichiarazione di “morte cerebrale”. Il sacerdote mi pose una domanda problematica: “Perché non gli è stato dato più tempo per valutare possibili segni di ripresa?”
La mia risposta fu: “I sostenitori dei trapianti risponderebbero che prima si prelevano gli organi, maggiore possibilità hanno gli organi di essere in buone condizioni”. Un esponente del movimento per la vita affermerebbe che un supporto vitale aggressivo potrebbe portare ad ulteriori segni di recupero, che fermerebbero il processo di donazione, ma in alcuni casi potrebbe tradursi nella ripresa del paziente “donatore”. Ci sono stati anche tragici errori nella dichiarazione di morte causati dallo zelo e dall’urgenza di ottenere organi. Alcuni non sono riportati per cause legali in corso che riguardano imputazioni quali omicidio e negligenza».
Nell’esposizione della sua relazione, il prof. Wanatabe (30) col sottotitolo: “I nostri 7 anni di esperienza (in Giappone, n.d.r) dopo l’applicazione della legge sui trapianti degli organi”, scrive: «Come è stato brevemente discusso nell’addendum al mio precedente articolo, un espianto multiplo di organi da una donna di mezza età con emorragia subaracnoidea (e cerebrale) eseguito nel febbraio 1999 è stato il primo caso dopo l’entrata in vigore della legge. In questo caso, sembra che i medici dell’Ospedale della Croce Rossa a Kochi avessero visto nella paziente una possibile candidata donatrice fin dall’inizio, in quanto la donna possedeva unadonor card. Allora invece di adottare certe precauzioni per salvarle la vita, tra cui abbassare la pressione sanguigna che era estremamente alta, dissero immediatamente alla famiglia che la donna si trovava in uno stato di “incombente morte cerebrale”, e non accennarono alla possibilità di salvarle la vita mediante rimozione chirurgica dell’enorme ematoma. Inoltre, sebbene la legge stabilisca chiaramente che il test di apnea deve essere eseguito come l’ultimo della serie delle procedure diagnostiche, questo test venne ripetuto molte volte, alcune anche prima che l’elettroencefalogramma diventasse piatto. Quel test deve aver accelerato la progressione della morte cerebrale e allo stesso tempo inflitto un dolore insopportabile alla paziente. Infine, con l’incisione chirurgica per il prelievo degli organi, la pressione sanguigna della paziente salì improvvisamente ed i suoi arti mostrarono movimenti
eccessivi al punto da richiedere l’anestesia. Questi fenomeni mostrano chiaramente che la donna sentiva dolore e che il tronco encefalico era funzionante, chiari segni che negavano lo stato di morte cerebrale».
Non è lecito pensare che questi poveri pazienti, se non sono trattati con farmaci anestetizzanti, ma curarizzanti subiscano la “vivisezione”, soffrendo in modo terribile?
«Il terzo caso di espianto – racconta il prof. Wanatabe - ha riguardato un ragazzo coinvolto in un incidente stradale. Era stato portato al pronto soccorso del Municipal Hospital di Furukawa una sera, dove si scoprì che aveva firmato una donor card. Quando il primario di neurochirurgia, già andato a casa propria, due ore e mezzo più tardi fu informato di questo caso, disse al personale di osservare soltanto il decorso affermando che non c’erano indicazioni per l’intervento chirurgico. Non arrivò in ospedale se non quattro ore più tardi, e per più di dieci ore il ragazzo non ricevette trattamenti intensivi per prevenire la progressione del danno cerebrale, come la somministrazione di medicinali per abbassare la pressione intracranica. Quindi, di nuovo in questo caso, la vittima di incidente non è stata considerata una persona con urgente bisogno di cure salvavita, ma invece è stata trattata come candidato alla donazione».

LA GRAVIDANZA
Diverse donne incinte in stato di “morte cerebrale” hanno portato avanti la gravidanza. Ad esempio il dott. Hill narra: «È stato registrato un nuovo caso di una donna, ritenuta morta secondo i test del tronco encefalico, la quale è stata assistita per 11 settimane fino al parto di un neonato vivo, prima di essere scollegata dal supporto vitale. Ciò dimostra ancora una volta che i test di funzionalità del tronco encefalico non sempre, come spesso si pretende, garantiscono una rapida morte per arresto cardiocircolatorio, e che una complessa fisiologia tipica della vita può continuare per favorire la gestazione» (31).
Il dott. Beckmann (32) scrive: «Il processo biologico del morire può essere “fermato” per qualche giorno mentre le funzioni dei polmoni e del cuore vengono artificialmente sostenute. Nel caso in cui la paziente sia una donna incinta, può essere “tenuta in vita” fino alla nascita del bambino. In Germania, gli eventi che hanno accompagnato il caso del cosiddetto “bebè di Erlangen” (Erlanger Baby) nel 1992 hanno portato il problema della morte cerebrale all’attenzione del pubblico. Molte persone non potevano credere che un gruppo di medici volesse far proseguire la gravidanza per far sviluppare un feto vivo all’interno di un “cadavere”, altre chiedevano di lasciare che la madre “spirasse in pace”».
Sono veramente morte le madri in condizione di morte cerebrale che portano a compimento la gravidanza di bambini non ancora nati? Mercedes Arzù Wilson (33) si chiede: «Come può una mamma così detta “cerebralmente morta”, dopo aver dato alla luce un bambino vivo, produrre latte materno quando invece il chirurgo ha assicurato la sua famiglia che il suo cervello è morto?
In quest’ultimo caso se si riscontra una pur minima attività cerebrale, è ovvio che la tecnologia esistente, allo stato attuale, è incapace di individuare una nascosta attività del cervello, così come le complesse funzioni della ghiandola pituitaria…
La società dei trapianti ignora forse che il latte materno è il risultato dell’attività della ghiandola pituitaria nel cervello che invia i segnali per la produzione della prolattina, i cui livelli aumentano in vista della produzione di latte per il bambino?
È interessante notare come quest’ultima domanda fu posta, su richiesta personale di sua Santità Giovanni Paolo II, ai medici favorevoli alla “morte cerebrale” che frequentavano, nel febbraio 2005, un convegno della Pontificia Accademia delle Scienze.
Nessuno di loro negò che una madre incinta, dichiarata “cerebralmente morta” potesse produrre latte dalle proprie mammelle dopo la nascita del figlio. Tali ammissioni incrinarono la loro sicurezza che nei pazienti con commozione cerebrale non ci fosse attività del cervello».

GUARIGIONI SPECIALMENTE CON L’IPOTERMIA
Il professore giapponese Wanatabe (34) ci delucida sull’ipotermia: «Ho citato la notevole efficacia della terapia dell’ipotermia cerebrale nel salvare pazienti con grave danno cerebrale e nel prevenire l’insorgere della morte cerebrale. Questa terapia fu sviluppata dal Dipartimento di terapia d’emergenza del Nihon University Hospital a Tokio. Nel loro primo rapporto, questa terapia fu adottata in venti casi in ematoma subdurale acuto con lesione cerebrale diffusa e dodici casi di ischemia cerebrale globale dovuta ad arresto cardiaco protratto per 30-40 minuti, tutti pazienti al livello 3-4 della scala di coma di Glasgow, dilatazione bilaterale delle pupille e assenza di reazione alla luce. Con l’ipotermia cerebrale controllata dal computer e il mantenimento di una pressione intracranica adeguata, quattordici pazienti su venti nel primo gruppo e sei su dodici pazienti nel secondo gruppo sono ritornati alla normale vita quotidiana, con il recupero della capacità di comunicazione verbale eccetto in un paziente. Sebbene i sostenitori della morte cerebrale possano ben argomentare che dal momento che i medici del pronto soccorso non hanno eseguito il test di apnea per paura di aggravare il danno cerebrale, quei trentadue casi potrebbero non essersi trovati in condizioni di morte cerebrale, un tale notevole successo della terapia implica un chiaro spostamento del punto di non ritorno verso o entro lo stadio di morte cerebrale. Gli studi di Coimbra sugli animali che avevano subìto un grave trauma alla testa presentano chiaramente un’evidenza sperimentale a sostegno della notevole efficacia clinica del trattamento dell’ipotermia cerebrale. Egli ha dimostrato che l’abbassamento della temperatura corporea a 33° in quegli animali diminuiva l’edema cerebrale ed abbassava la pressione intracranica, quindi aumentava il flusso sanguigno cerebrale al di sopra del livello critico. Tale effetto, insieme alla prevenzione dello sviluppo di ipertermia cerebrale, la quale accelera il danno alle cellule nervose, era in grado di ripristinare la funzione cerebrale normale, mentre un test di apnea condotto su quegli animali provocava ipotensione grave e riduceva ulteriormente il flusso sanguigno cerebrale distruggendo l’intero encefalo. Quindi, lo stato di morte cerebrale nel senso di danno veramente irreversibile dell’encefalo può essere diagnosticato solo dopo l’applicazione della terapia dell’ipotermia cerebrale, ed il test di apnea dovrebbe essere immediatamente cancellato dalla serie di procedure diagnostiche elencate nell’attuale legge sul trapianto di organi».
Leggiamo dalla relazione del prof. Weaver: «Il neurologo C. G. Coimbra ha anche mostrato che uno dei test diagnostici universalmente usati, noto come test di apnea, per determinare l’abilità cerebrale di generare il processo di respirazione, può in realtà causare ulteriore danno all’encefalo. Spiegato in modo semplice il test di apnea viene eseguito spegnendo il ventilatore, e ciò arresta l’apporto di ossigeno ai polmoni, i quali non espellono l’anidride carbonica, un prodotto standard di scarto. Tuttavia il graduale incremento della quantità di anidride carbonica crea un ambiente che danneggia ulteriormente le cellule cerebrali già compromesse e allo stesso tempo queste cellule non ricevono l’ossigeno necessario per la ripresa”(35).

GLI ATTUALI MEZZI SCIENTIFICI NON SONO INFALLIBILI
Basandosi sulle relazioni di numerosi professori e dottori, il prof. P. Becchi a pag. 100 del suo libro riferisce: «Gli attuali mezzi clinici non sono in grado di accertare la cessazione di tutte le funzioni, ma soltanto di alcune e diagnosticano tutt’al più la morte corticale».
Abbiamo riportato più sopra col sottotitolo: “Una sopravvivenza di oltre 20 anni in stato di morte cerebrale” il caso di TK, studiato dal neurologo Shewmon, riguardante un bambino colpito da meningite all’età di 4 anni; ebbene: «L’angiogramma a risonanza magnetica non mostrò flusso sanguigno intracranico, una risonanza magnetica rivelò che l’intero cervello, incluso il tronco era stato sostituito da un’ombra di tessuti e da fluidi proteici disorganizzati. Ciò che restava dell’encefalo era atrofizzato e non poteva essere riconosciuto come encefalo». L’angiogramma dunque, in questo caso certificava che il paziente era in stato di “morte cerebrale”, ma non permetteva di concludere che il paziente era vivo.
Mons. Bruskewitz (36) fa notare: «TK non soltanto presentava segni di vita, ma addirittura raggiunse la pubertà e l’età adulta».
Riguardo all’elettroencefalogramma il prof. Bondì scriveva che la presenza di forti addensamenti emorragici endocranici (tipica dei traumatizzati da incidenti) può eliminare il “segnale” della penna scrivente (dell’elettroencefalogramma, n.d.r.) o diminuire di molto l’ampiezza dei segnali rilevati dalla macchina operante con elettrodi applicati sopra il tavolato osseo; data l’esiguità della traccia scritta è sempre problematico e grossolano l’apprezzamento obiettivo di questi segni di vita, la cui importanza è capitale, se possono sottrarre un paziente alla sentenza medico legale di morte e all’irremediabile svuotamento del suo corpo con l’espianto; in questo caso gli elettrodi dovrebbero essere posti sotto il tavolato osseo. Quindi l’EEG non dimostra affatto che l’attività cerebrale sia assente in tutto l’encefalo» (37).
Il dott. Hill da parte sua ci ricorda che: “Accertamenti mediante risonanza magnetica funzionale (fMRI) hanno mostrato che un paziente in stato vegetativo persistente incapace di risposte agli stimoli può ricevere, elaborare, rispondere e comunicare col pensiero. Sebbene lo stato vegetativo persistente non sia la morte del tronco encefalico, la risonanza indica che quel paziente, a differenza di quanto sino ad ora creduto, può non essere completamente irrangiungibile e incapace di risposte agli stimoli, e dimostra quanto poco sappiamo del significato delle attività cerebrali residue in coloro che sono ritenuti morti secondo i test di funzionalità del tronco encefalico (38).

STRANI CONCETTI DI PERSONA
Molti filosofi e laureati hanno uno strano concetto della persona, al di fuori del senso comune, e così arrivano a giustificare gli espianti. Il prof Shewmon riferisce che al III International Symposium on Coma and death, tenutosi a l’Avana, Cuba, dal 22 al 25 febbraio 2000, il Dr. Fred Plum, esperto di morte cerebrale e primo autore dell’importante manuale The diagnosis of Stupor and coma, si alzò e disse: «Va bene, ti concedo che il corpo in condizioni di morte cerebrale è un organismo umano vivente, ma è una persona umana?» (39).
Da parte sua il prof. Spaemann spiega che: «La concezione di Furton coincide con la concezione di Peter Singer e di Dereck Parfit, per i quali le persone esistono finchè sono capaci di atti personali, posizione da cui deriva che ad esempio durante il sonno gli individui non sono persone» (40).
«Warren – riporta il prof. Potts - segue Locke nel ritenere che “alcuni esseri umani non sono persone”. Ciò include che un “uomo o una donna la cui coscienza sia stata permanentemente cancellata ma che rimanga in vita (…); esseri umani anormali, privi di apprezzabili capacità mentali (…); un feto. Tali individui mancano di pieni diritti morali» (41).

E IL FUTURO?
Stiamo tornando ad un concetto pagano della vita, si vuole il benessere a tutti i costi, anche a scapito del prossimo, ciò è veramente inquietante e questo non possiamo non constatarlo.
«La nostra preoccupazione - riferisce il prof. Wanatabe - è che a causa della scarsità di organi donati, chi propone i trapianti possa tentare di espandere la categoria dei donatori dai morti cerebrali alle persone in stato vegetativo, ai soggetti con handicap mentali e a membri deboli della nostra società. L’utilizzo di bambini anencefalici come donatori, già praticato in certi paesi, dà fondamento a tale preoccupazione» (42).
La situazione dell’uomo moderno arriva al paradosso, ecco la costatazione del dott. Hill: «Ci sono stati alcuni progressi nella esecuzione degli xenotrapianti, ossia di tessuti e organi prelevati da animali. I problemi del rigetto sono enormi e l’opinione pubblica britannica e le organizzazioni per i diritti degli animali sembrano più preoccupate per il destino degli animali che potrebbero fornire gli organi che per i donatori umani» (43).
«Le società per millenni – riporta il prof. Weaver – hanno imposto il genocidio di membri vulnerabili selezionati delle loro culture. Ciò continua ancora oggi con gli utilitaristi che usano principi di proporzionalismo per giustificare l’uccisione di disabili al fine di migliorare la vita degli altri» (44).

MORALE
La coscienza, in senso proprio, è un giudizio della ragione pratica sulla bontà o colpevolezza di un’azione, cioè è un giudizio sulla liceità o illiceità del proprio atto. È logico che per quanto riguarda la nostra eternità non dobbiamo fare atti contrari alla volontà di Dio. Ora già Pio XII aveva scritto che in caso di dubbio sulla morte di una persona bisogna presumere che sia ancora viva (45). Questa affermazione riguardava proprio le persone in stato di rianimazione. Il principio di Teologia morale che riguarda i trapianti di organi afferma che con un dubbio pratico circa la liceità di un’azione non è mai lecito agire. Per es. un cacciatore che dubiti se vi sia una bestia o uomo dietro a un cespuglio e spara lo stesso, pecca di omicidio, anche se poi risulta che ha freddato un capo di selvaggina (46); chi sorpassa in curva, senza visibilità, col dubbio che di fronte venga un altro automezzo, anche se non succede nessun incidente, fa peccato lo stesso perchè mette in pericolo la sua vita e quella degli altri. Siccome nel caso dei trapianti di organi non vi è affatto la certezza che le persone espiantate siano morte, coloro che si ritrovano in questa situazione non devono agire, ma devono chiarire il dubbio e seguire la parte più sicura. Quindi la norma della nostra condotta (nel nostro caso: dei medici espiantatori, dei donatori e dei familiari di eventuali donatori) non è la coscienza libera, ma la coscienza certa che l’uomo ha il dovere di rendere vera, per cui la coscienza vincibilmente erronea (o falsa) ogni essere umano è tenuto a correggerla e quella dubbia è obbligato a chiarirsela e questo massimamente quando si tratta dell’autorità di Dio e della propria salvezza e della vita degli altri.

CONCLUSIONE
Il Papa Giovanni Paolo II, il 29/08/2000 in occasione del Congresso internazionale della Società dei trapianti aveva affermato: «Gli organi vitali e singoli non possono essere prelevati che ex cadavere cioè da un individuo certamente morto […]. Comportarsi altrimenti significherebbe causare intenzionalmente la morte del donatore prelevando i suoi organi”.
Il dott. Byrne ribadisce in modo chiaro: «In realtà la morte cerebrale non è la vera morte. Non ci sono modi per ottenere un cuore per i trapianti a meno che non sia un cuore sano da un paziente vivo. Sotto il profilo etico non è accettabile la rimozione di un organo dispari, vitale e sano adatto ai trapianti da un soggetto dichiarato in modo legale “cerebralmente morto”, ma non sotto il profilo biologico: non si dovrebbe compiere il male per il bene che potrebbe derivarne. Si può fare qualcosa per trasformare in vero ciò che è falso?» (47).
«Anziché riconoscere che il soggetto “cerebralmente morto” non è realmente morto – riferisce il prof. Coimbra - alcuni hanno già proposto che la “morte cerebrale” valga come morte ai fini del trapianto. Tuttavia il morire non è la morte e troppe vite sono state perdute per la passata cecità, quando la diagnosi di “morte” è stata applicata al cervello silente che riceveva livelli critici di apporto sanguigno. Un paziente che sarebbe morto senza speranza anni fa potrebbe ora essere aiutato a riprendersi mediante nuove efficaci terapie, sviluppate per il miglioramento delle conoscenze relative alla fisiopatologia del coma» (48).
Il prof. Seifert conclude: «Quindi dal discorso del Papa e dal principio etico vero ed evidente in esso affermato (enfatizzato dall’intera tradizione di insegnamenti morali impartiti dalla Chiesa) secondo cui se esiste un minimo ragionevole dubbio che le nostre azioni uccidano una persona dobbiamo astenercene dal compierle, unitamente al fatto della crescente incertezza nella comunità scientifica, giuridica, psicologica e filosofica mondiale a proposito della morte cerebrale come morte di fatto della persona» (49).
Articolo apparso su Tradizione Cattolica - n°1 – 2009

Bibliografia:
(1) Paolo Becchi, Professore di filosofia del diritto presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Genova.
(2) In Finis vitae Is brain death still life? Ed. Rubettino, p. 140. JOSEPH C. EVERS, M.D., FAAP, pediatra, Fellow dell’American Academy of Pediatricians (U.S.A.).
(3) In Finis Vitae ib. p. 373. - Yoshio Wanatabe, M.D., FACC, cardiologo. Professore Emerito di Medicina, Fujita Health University, Direttore del Toyota Medical Center,Giappone.
(4) D. ALAN SHEWMON, M.D., PH.D., neurologo. Professore di neurologia e pediatria presso la David Geffen School of Medicine - UCLA; Direttore del Dipartimento di Neurologia, Olive View Medical Center, Los Angeles, California (U.S.A.).
(5) In Finis Vitae ib. p. 196 - DAVID J. HILL, M.A., PH.D., Consulente Emerito in Anestesiologia, Addenbrooke’s Hospital, Cambridge (U.K.).
(6) In Finis vitae, ib. p. 380. WALT FRANKLIN WEAVER, Professore associato presso la Facoltà di Medicina, Università del Nebraska, Omaha, Nebraska (U.S.A.).
(7) Summa Theol. I, Q.18, a.1, c..
(8) cfr.http:/www.lozuavopontificio.net/osservatorio/2008/04/12/l’inganno-della-morte-cereb…
(9) In Finis vitae, ib. p. 225. (MICHAEL POTTS, filosofo, Professore presso la Methodist University, Fayetteville, North Carolina (U.S.A.).
(10) In Finis vitae, ib. p 320.
(11) Byrne ww.lozuavopontificio, ib. Paul A. Byrne, M.D. FAAP, neonatologo. Professore di neonatologia presso la Facoltà di Medicina, Università dell’Ohio.
(12) In Finis vitae, ib. p. 263. JOSEF SEIFERT, PH. D., filosofo. Rettore della International Academy for Philosophy del Liechtenstein; membro della Pontificia Accademia per la Vita).
(13) In Finis vitae, ib. p. 436. RALF WEBER, giurista. Professore all’Università di Rostock, membro della Commissione etica dell’Ordine dei Medici in Mecklenburg-Vorpommern (Germania).
(14) In Finis vitae, ib. p. 41, RAINER BECKMANN, giudice, Membro della Academy for Ethics in Medicine… Componente in qualità di esperto delle Commissioni del Parlamento tedesco Law and Ethics of Modern Medicine (2000-2002).
(15) In Finis vitae, ib. p. 306.
(16) P.Becchi, Morte cerebrale, ib. p. 104.
(17) In Finis vitae, ib. p. 304.
(18) S. REPERTINGER, W.P. FITZGIBBONS, M.F. OMOJOLA, et al., “Long survival following bacterial meningitis-associated brain destructio”, in “Journal of Child Neurology”, 21, 2006, pp. 591-595.
(19) In Finis vitae, ib. p. 326.
(20) In Finis vitae, ib. p. 80.
(21) In Finis Vitae, ib. p. 305.
(22) 203 In Finis vitae, ib. p. 203.
(23) In Finis vitae, ib. p. 173 - CICERO GALLI COIMBRA, M.D., PH.D., neurologo clinico. Professore presso il Departement of Neurology and Neurosurgery, Federal University of Sao Paulo – UNIFESP (Brasile).
(24) In Finis vitae, ib. p. 340. (ROBERT SPAEMANN, filosofo. Professore Emerito presso le Università di Stoccarda, Heidelberg, Salisburgo; membro della Pontificia Accademia per la vita (Germania).
(25) In Finis vitae, ib. p. 45.
(26) In Finis vitae, ib. p. 395.
(27) In Finis vitae, ib. p. 135 ss.
(28) In Finis vitae, ib. p. 78.
(29) In Finis vitae, ib. p. 409.
(30) In Finis vitae, ib. p. 371s.
(31) In Finis vitae, ib. p. 208, (Brain dead woman gives birth, in “British Medical Journal”, 332, 2006. p. 1468).
(32) In Finis vitae ib. p. 28.
(33) Mercedes Arzù Wilson, membro della Pontificia Accademia per la Vita, (cfr. www.fattisentire.net, 05/09/2008)., ibidem.
(34) In Finis Vitae, ib. 374.
(35) In Finis vitae, ib. p. 410.
(36) Brusk 51 In Finis vitae, ib. p. 51, FABIAN WENDELIN BRUSKEWITZ, Vescovo della Diocesi di Lincoln, Nebraska (U.S.A).
(37) Prof. Dr. Massimo Bondì L. D. Pat. Chir. e Prop. Clin. Patologo Generale – General Surgeon M.D. Sydney, Audizione del 29.10.92, testo presentato al Comitato Ristretto della Commissione Affari Sociali del Parlamento Italiano, cfr. Lega contro la predazione degli organi a cuore battente, Via Patti lateranensi, Bergamo.
(38) In Finis vitae, ib. p. 208 A. OWEN, “Detecting awareness in the persistent vegetative state”, in “Science”, 313, 2006, p. 1402.
(39) In Finis vitae, ib. p. 285.
(40) In Finis vitae, ib. p. 347
(41) In Finis vitae, ib, p. 64.
(42) In Finis vitae, ib. p. 367.
(43) In Finis vitae, ib. p. 206.
(44) In Finis vitae, ib. p. 399.
(45) PioXII, Discorso, Le Dr. Bruno Haid, a numerose personalità della scienza medica, in risposta ad alcuni quesiti importanti sulla rianimazione, 24/11/1957.
(46) E. Jone, Compendio di Teologia morale ed. Marietti, 1964, par. 89.
(47) In Finis vitae, ib. p. 98.
(48) In Finis vitae, ib. p.189.
(49) In Finis vitae, ib. p. 276.

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