mercoledì 11 aprile 2012

LA CRISTOLOGIA ANTROPOCENTRICA DEL CONCILIO ECUMENICO VATICANO II (V Parte)






di Paolo Pasqualucci (Fonte)


quinto capitolo




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8. Dobbiamo dunque credere che con l’Incarnazione Nostro Signore “si è unito in certo modo ad ogni uomo”? Che l’Incarnazione – assunzione della natura umana nel mantenimento di quella divina – abbia di per sé (eo ipso) innalzato “anche in noi” la natura umana ad una “dignità sublime”, questo concetto non risulta dunque dalle definizioni dogmatiche poste a fondamento della cristologia ortodossa. Ma proprio un concetto del genere costituisce il nucleo attorno al quale ruota l’intero art. 22, formandone come il perno dal punto di vista dottrinale.
“[Poiché in Lui la natura umana è stata assunta, senza per questo venire annientata, per ciò stesso essa è stata anche in noi innalzata a una dignità sublime]. Ipse enim, Filius Dei, incarnatione sua cum omni homine quodammodo Se univit. Humanis manibus opus fecit, humana mente cogitavit, humana voluntate egit [Costantinop. III], humano corde dilexit. Natus de Maria Virgine, vere unus ex nostris factus est, in omnibus nobis similis excepto peccato [Heb. 4, 15]” (GS, 22.2).
L’assunto contenuto in questo paragrafo, su quale dimostrazione poggia? Esso costituisce l’affermazione ultima e finale di un ragionamento che vuole spiegare perché Cristo, “nuovo Adamo”, sveli all’uomo la sua “altissima vocazione”, già con il fatto dell’Incarnazione. Perché? Perché l’Incarnazione ha innalzato l’uomo a una “dignità sublime”. E come mai? Per il semplice motivo che, con l’Incarnazione, si è realizzata “l’unione di Cristo con ogni uomo”. Che l’innalzamento ad una “dignità sublime” dipenda dalla (supposta) unione di Cristo con ogni uomo, lo dimostra sintatticamente la posizione dello “enim”, che collega causalmente dignità sublime appena attribuita all’uomo e incarnazione come unione con ogni uomo: “Infatti Egli stesso, il Figlio di Dio, si è unito etc.”.
Dobbiamo dire che questa formulazione del dogma cristologico, apparsa qui per la prima volta nella storia della Chiesa, si limita a riproporre in modo aggiornato il dogma stesso, senza sostanziali mutamenti, oppure che essa contiene mutamenti rilevanti, tali da giustificare un’indagine accurata sulla loro legittimità? A mio avviso, ci troviamo nel secondo caso. Infatti, nella proposizione: “con l’Incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo”, il concetto di unione ipostatica, tipico della teologia dell’Incarnazione, viene utilizzato in modo del tutto atipico. E non si tratta di una novità di poco conto, visto che essa estende il concetto dell’unione ipostatica all’intera umanità! Questa novità come si può accordare con il concetto chiave dell’intera cristologia ortodossa, quello secondo il quale l’unione ipostatica ha avuto luogo unicamente nella persona divina di Cristo, ossia in quell’unica persona divina che ha unito la divinità del Verbo e la natura umana in un solo uomo, l’individuo che è stato storicamente Gesù di Nazareth, per il Censo imperiale romano figlio di Giuseppe e di Maria? E quindi: non solamente in una sola persona, ma anche in un solo individuo e solo in quello.
P e r s o n a nel senso individuale e concreto, non morale o giuridico; concreto di una sostanza individuale, per se sussistente, che è però divina. Questa persona unisce la natura del Verbo e quella umana di un solo uomo e non di tutta la moltitudine degli uomini poiché la perfetta natura umana del Cristo era quella dell’uomo vissuto e conosciuto come Gesù, manifestatosi in parole ed opere come il Messia e risorto come tale dai morti: vissuto, morto e risorto sempre ed unicamente come un solo uomo.
Lo ripetiamo, come può accordarsi la novità introdotta da GS, 22 con il concetto di unione che sta a fondamento del dogma? C’è o non, una bella differenza tra il concepire l’unione ipostatica come unione delle due nature (umana e divina) in una sola persona che unisce (in modo ad essa peculiare) un solo individuo alla natura divina, ed il concepirla come unione “in certo modo con ogni uomo”? Alla nuova dizione dovremmo poter applicare il concetto base del dogma senza essere costretti a rilevare contraddizione alcuna. Ma questo non è possibile.
Secondo il dogma, “unio fit in persona, non in natura”(1). Se applichiamo questo concetto alla (supposta) unione di Cristo con ogni uomo, ne segue la divinizzazione dell’uomo! Infatti, se Cristo si è unito ad ogni uomo per il fatto stesso dell’Incarnazione, non potendo noi separare nell’unione ipostatica che la costituisce la natura divina da quella umana, ne consegue che la stessa unione che si ha nell’unione ipostatica si verrebbe a realizzare in ogni uomo. Perciò, nella persona di ciascuno di noi si realizzerebbe l’equivalente o il medesimo dell’unione della natura divina e umana che si è attuata in Cristo Nostro Signore! E l’uomo verrebbe in tal modo divinizzato, alla maniera dei panteisti, cosa del tutto inconcepibile in sé, offensiva per Dio e contraria alla Fede. Se fosse vero che il Cristo, con l’Incarnazione stessa, si è unito ad ogni uomo, allora ogni uomo sarebbe in quanto tale unito al Cristo e ognuno di noi dovrebbe ritenersi consustanziale al Padre, esattamente come il Cristo!
Si può ovviare a simili, aberranti conseguenze, che appaiono tuttavia coerenti con quanto affermato dal testo conciliare, giocando sul significato dell’avverbio quodammodo, come se l’affermata unione dovesse ritenersi solamente simbolica (vedi supra, § 2)? Ma da questa unione l’art. 22 ricava conseguenze teologicamente assai rilevanti, ancorché del tutto nuove nella pastorale della Chiesa. Difatti, abbiamo visto che l’Incarnazione in quanto tale provocherebbe lo “svelamento” dell’altissima vocazione dell’uomo; la “restituzione” della “somiglianza” con Dio, che sarebbe stata solo “deformata” dal peccato originale; l’innalzamento “anche in noi” della natura umana ad una “dignità sublime”: provocherebbe tutto questo proprio perché avrebbe realizzato l’unione del Figlio con ogni uomo, in quanto tale!
Il quodammodo non può perciò svolgere la funzione di introdurre un’immagine solo simbolica o allegorica, cosa che oltretutto, come si è detto, apparirebbe priva di senso. In ogni caso, quale che sia il significato da attribuire al quodammodo, la sua presenza sembra essere a ben vedere irrilevante. Infatti, il nuovo Catechismo della Chiesa cattolica, cita due volte GS, 22.2 (agli artt. 432 e 618), nel primo caso semplicemente omettendo questo avverbio. Che brilla per la sua assenza anche nel famoso art. 13 dell’Enciclica Redemptor hominis di Giovanni Paolo II, che ha appunto a contenuto la professione deuterovaticana: “Cristo si è unito ad ogni uomo”(2).
Consideriamo infine la descrizione delle note caratteristiche dell’umanità del Signore, contenute nel prosieguo del passo dell’art. 22.2 GS. Esse sembrano voler costituire quasi una prova del fatto che il Verbo si sarebbe unito ad ogni uomo. Nostro Signore, nella Sua vita terrena, ci ricorda l’articolo, ha usato l’intelligenza, la volontà, gli affetti di un uomo, ha “lavorato con mani d’uomo” (nella bottega del padre putativo, S. Giuseppe). Tutto ciò “dimostra che Egli si è fatto veramente uno di noi”, ovviamente nel senso voluto dall’articolo, ossia in quanto con l’Incarnazione si è unito ad ogni uomo. Ma dalla testimonianza delle caratteristiche perfettamente umane della natura umana di Nostro Signore, non si vede come si possa affermare che Egli si è in quanto tale unito a ciascuno di noi. In realtà, la dimostrazione offerta dalle note caratteristiche della natura umana del Signore, non è altro che la ripetizione di quanto la Fede tradizionale della Chiesa ha sempre ritenuto: Egli “si è fatto veramente uno di noi” perché in se stesso era uno di noi, era come noi (tranne che nel peccato); pensava, voleva, amava, si comportava come uno di noi, ossia come un vero uomo, dall’individualità specifica, concreta, non come un simulacro di uomo. La “dimostrazione” riportata dal testo conciliare non introduce elementi nuovi, che permettano di accettare la tesi straordinaria di un’unione ipostatica del Verbo incarnato con ognuno di noi.

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NOTE
1) Bartmann, I, § 89 (p. 373).

2) Sull’articolo 13 della Redemptor hominis, vedi l’esegesi critica di Dörmann, op cit., p. 83 ss.

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