mercoledì 11 aprile 2012

LA CRISTOLOGIA ANTROPOCENTRICA DEL CONCILIO ECUMENICO VATICANO II (VI Parte)






di Paolo Pasqualucci (Fonte)


sesto capitolo



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9. Il riapparire di un antico errore in GS, 22? Nelle eresie cristologiche dei primi secoli, tutte rigorosamente individuate e condannate dal Magistero, gli errori vertevano in genere sul rapporto tra natura umana e divina in Cristo. Esse finivano per far prevalere arbitrariamente l’una a scapito dell’altra, in vari modi, a seconda della capacità di sottilizzare e dell’abilità dialettica degli eretici, spesso notevoli. Nel caso dell’art. 22, ci viene invece proposto un errore di tipo diverso. Esso consiste nel fatto di ampliare il concetto dell’unione ipostatica, pilastro del dogma dell’Incarnazione, in modo da ricomprendervi eo ipso ciascun uomo, e quindi tutta l’umanità, come se questo concetto potesse applicarsi ad altri che al Cristo!
Errore dottrinale non del tutto nuovo, se S.Giovanni Damasceno (morto nel 749) lo combatté durante la sua lotta contro l’eresia iconoclasta, precisando appunto che l’Incarnazione andava riferita alla sola persona individuale e concreta del Cristo: “il Figlio di Dio non assunse la natura umana che consideriamo nella specie [umana] e pertanto nemmeno [assunse] tutte le persone degli uomini” (1).
S. Tommaso introdusse proprio questa sentenza del Damasceno, nella sua confutazione dello stesso errore. I suoi argomenti principali sono i seguenti. La persona divina del Verbo non si è incarnata “in omnibus individuis” (non si è potuta “unire ad ogni uomo”). Se ciò fosse successo, la molteplicità dei soggetti intrinseca alla natura umana sarebbe scomparsa (tolleretur multitudo suppositorum humanae naturae), dato che la Persona divina costituisce l’unico soggetto della natura umana assunta dal Verbo incarnato. (Nel Verbo incarnato ci sono infatti due nature ma c’è una sola persona e quindi un solo soggetto unitario in se stesso). Inoltre, la supremazia assoluta del Figlio di Dio nei confronti dell’umanità ne sarebbe risultata sminuita, dato che tutti gli uomini, essendo stati assunti dal Verbo, avrebbero la stessa Sua dignità (essent tunc omnes homines aequalis dignitatis). E ciò è inconcepibile, dato che il Verbo è “primogenito tra molti fratelli” (Rm 8, 29) per ciò che riguarda la natura umana, così come è “generato prima di ogni creatura” (Col 1, 15) secondo la natura divina. Inoltre, era conveniente che ad una sola Persona divina incarnata corrispondesse un’unica natura umana assunta(2).

Si considerino le molteplici conseguenze negative della straordinaria dottrina di GS, 22.2. Da un lato, essa induce a divinizzare l’uomo, oscurando il dogma del peccato originale, che difatti viene presentato nel modo fortemente indadeguato che si è visto. Dall’altro, rende incerto il dogma stesso dell’Incarnazione, mescolando il divino e l’umano, non solo in Nostro Signore ma anche in noi. Come può la perfetta umanità di Cristo considerarsi unita eo ipso all’imperfetta nostra e peccatrice? E come lo può la Sua divinità? E come può la nostra umanità peccatrice considerarsi ontologicamente elevata al rango del Verbo? Tale proclamata, impura “unione” comporta una mescolanza che confonde la natura divina del Cristo con quella umana dell’uomo che è ciascuno di noi e la natura umana del Cristo (esaltata con tanta enfasi da GS, 22.2) con l’umanità decaduta dell’uomo che è ciascuno di noi. Tale mescolanza e commistione porta in definitiva a confondere il Sovrannaturale e ciò che è della natura creata (e decaduta). In essa traspare, a mio avviso, una tinta panteista, perché siffatta “unione” tende ad identificare l’umano e il divino.
Infatti, se il Signore si è unito occultamente ad ogni uomo, per il fatto stesso di essere il Signore che si è incarnato, allora ogni uomo partecipa ontologicamente della natura divina di Cristo e la distinzione tra la natura nostra, corrotta dal peccato originale, e il Sovrannaturale di fatto scompare. Che ruolo dobbiamo allora attribuire alla Grazia? Non presuppone essa la Caduta dell’uomo, l’imperfezione (non totale ma tuttavia ontologica) della sua natura, che la divina Misericordia si degna di emendare, dandoci la possibilità della salvezza tramite l’Incarnazione del Verbo e la Sua opera redentrice? Ma se Cristo si è già unito a noi, per il solo fatto di essere Cristo, allora noi siamo già stati tutti redenti per il solo fatto di essere uomini e Cristo stesso e la Chiesa non hanno nulla da fare più! Ed infatti il Vaticano II, suggerendo una novità come quella esposta nell’art. 22 GS, ha indotto a mutare il senso della missione della Chiesa, il cui nuovo messaggio è ora il seguente: gli uomini contemporanei dovrebbero rendersi conto che, già con l’Incarnazione, Cristo si è unito a ciascuno di loro, per ciò stesso elevandolo ad una dignità sublime e conferendogli un’altissima missione, indicata dal Concilio e fatta propria dalla Gerarchia come suo compito specifico; missione che consiste nel realizzare la pace nel mondo, la fratellanza universale nel dialogo che non mira a convertire ma ad acquisire le posizioni dell’avversario per superarle in una Comunione universale d’amore, una nuova Chiesa, “ecumenica”, incontro solidale di tutti i popoli e di tutte le religioni!(3)
La “nuova dottrina” dell’Incarnazione mina, a mio avviso, anche il dogma della predestinazione alla Gloria, che appartiene all’infallibilità del magistero ordinario. Lo mina, anche nella sua forma più moderata, quella della predestinazione condizionale (ad gloriam tantum, sed post et propter praevia merita)(4). Infatti, se con l’Incarnazione il Verbo si è unito di per sé ad ognuno di noi, come si può affermare che una parte dell’umanità non si salverà (sia pure per colpa propria e non perché predestinata alla dannazione) perché solo una parte di noi è stata imperscrutabilmente predestinata da Dio alla Gloria eterna (Rm 9, 11 ss.)? Se ognuno di noi partecipa oggettivamente, per il solo fatto di esser uomo, della natura divina (perché il Verbo, incarnandosi, si sarebbe unito eo ipso anche a lui), come è possibile che ci siano tra di noi alcuni (ed anzi molti – Fil 3, 18-19) che non solo non sono stati predestinati alla gloria eterna ma che andranno per colpa loro in perdizione, pur non essendovi stati predestinati?

Ma i rilievi negativi non possono arrestarsi qui. Se Cristo, nuovo Adamo, con l’Incarnazione “svela l’uomo a se stesso”, rivelandogli la sua altissima missione e sublime dignità, e in tal modo “rivela il mistero del Padre e del suo amore” (GS, 22.1), ciò significa che fine dell’Incarnazione viene ad essere l’attuazione del “mistero dell’amore del Padre” per il genere umano. Ma questo fine, che è quello della Misericordia divina, non può esprimere tutto il significato dell’Incarnazione. Ve n’è anche un altro, ad esso superiore. L’Incarnazione avviene anche perché si deve attuare l’esigenza della giustizia divina, che esige riparazione per il peccato di Adamo. Tale riparazione si perfeziona con la Croce, che ha appunto un significato propiziatorio ed espiatorio. Ciò significa che nell’Incarnazione c’è il fine di dare soddisfazione all’esigenza della Giustizia divina. Di questo fine, in GS 22, non sembra esservi traccia.
Il fatto è che, se si mina alla base il dogma cristologico, l’intero edificio dottrinale della religione cattolica viene a cadere, come sembra evidente. Per questo, sin dagli inizi del Cristianesimo, la Gerarchia ma anche i fedeli, per quanto stava al loro sensus fidei, reagirono sempre con decisione e tenacia alle gravi eresie cristologiche che si erano susseguite a partire dalla fine del I secolo, quando, grazie agli gnostici, si affacciò per la prima volta il docetismo, il quale negava la realtà del corpo di Cristo e considerava semplice apparenza la Sua vita terrena, e in particolare le Sue sofferenze (l’eresia docetista sarebbe poi riapparsa nel Corano, 4: 156).

(fine)


NOTE
1) “Filius Dei non assumpsit humanam naturam quae in specie consideratur: neque enim omnes hypostases eius assumpsit”, citato da S. Tommaso, nella Summa Theologiae, III, q. 4, a. 5.

2) ST, III, q. 4, a. 5. Vedi sul punto la Postilla della Redazione ad una lettera intitolata: Un errore cristologico di tipo nuovo nell’art. 22 della Gaudium et spes?, in sì sì no no XXXV (2009) 1, pp. 7-8.

3) Sull’inaccettabile, mostruosa promiscuità teologica che caratterizza “l’ecumenismo” attuale, vedi: B. Gherardini, Quale accordo fra Cristo e Beliar? Osservazioni teologiche sui problemi, gli equivoci ed i compromessi del dialogo interreligioso, Fede & Cultura, Verona, 2009, pp. 30-32, e in realtà l’intero volume.

4) Bartmann, II, § 121 e 122.

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