lunedì 2 luglio 2012

Uno sguardo alla dichiarazione dottrinale rinviata a Roma da Mons. Fellay



L'articolo (Analyse de la déclaration doctrinale)
è stato pubblicato, in tre parti, sul sito francese
Cattolico Refrattario

Noi ne abbiamo fatto un articolo unico, eliminando i richiami  alle parti precedenti presenti all'inizio della seconda e della terza parte.





«L’intera Tradizione della fede cattolica dev’essere il criterio e la guida per la comprensione degli insegnamenti del Concilio Vaticano II, il quale a sua volta chiarisce certi aspetti della vita e della dottrina della Chiesa, implicitamente presenti in esso, non ancora formulati. Le affermazioni del Concilio Vaticano II e del successivo Magistero Pontificio, relative alla relazione fra la Chiesa cattolica e le confessioni cristiane non cattoliche, devono essere comprese alla luce dell’intera Tradizione.»

Nel corso di una conferenza tenuta alla scuola Saint Joseph des Carmes (nell’Aude) lo scorso 5 giugno, Don Pflüger ha letto un estratto della dichiarazione dottrinale rinviata a Roma da Mons. Fellay, lo scorso 15 aprile. Questo testo, finora rimasto sigillato dal più grande segreto, per la prima volta viene reso pubblico parzialmente ad opera del primo Assistente della Fraternità. Anche se si tratta solo di un estratto, esso è sufficientemente significativo perché ci si possa soffermare a considerarlo.

In questo tipo di documenti – si tratta di una dichiarazione dottrinale – ogni parola conta. Solo un’analisi lineare permette di affrontare in modo appropriato tale testo, che comporta tre grandi affermazioni. Le prime due enunciano dei principi generali, adattati ad un caso particolare nella terza.

L’intera Tradizione della fede cattolica dev’essere il criterio e la guida per la comprensione degli insegnamenti del Concilio Vaticano II.
Questa prima affermazione è chiaramente legata alla richiesta spesso ribadita da Mons. Lefebvre: che il Concilio venga letto alla luce della Tradizione.
Queste due espressioni si equivalgono veramente?

A più riprese, l’antico Arcivescovo di Dakar aveva precisato la portata di una tale formula: che siano conservati gli enunciati conformi alla Tradizione, che siano interpretati alla luce di questa stessa Tradizione le formule ambigue e che siano tranquillamente rigettate le affermazioni ad essa contrarie.
Tale spiegazione lascia chiaramente intendere che Mons. Lefebvre non considerava ogni affermazione del Concilio Vaticano II come un “insegnamento” della Chiesa. In effetti, è semplicemente proibito all’anima cattolica rigettare un qualsiasi insegnamento della Chiesa, anche se non esposto in maniera infallibile.

Di contro, la Dichiarazione in questione ammette come “insegnamenti” tutti gli enunciati del Vaticano II, lasciando semplicemente la preoccupazione per la «comprensione».
I termini usati non sono casuali. Dal momento che un insegnamento della Chiesa non può essere messo in dubbio, questi termini implicano l’accettazione globale delle affermazioni conciliari, lasciando da parte la scoperta del loro significato perché se ne abbia la giusta comprensione. L’aggiunta della griglia di lettura: L’intera Tradizione della fede cattolica, non toglie nulla a questo riconoscimento, fondamentale per la Roma odierna e fondamentalmente nuova nella bocca dei rappresentanti ufficiali della Fraternità San Pio X: le affermazioni del Vaticano II, prese globalmente, sono “insegnamenti” della Chiesa.

Questo nuovo posizionamento della Fraternità non è sfuggito agli interlocutori romani di Mons. Fellay, che hanno sottolineato il netto  cambiamento di tono della Fraternità nei confronti del Concilio. Hanno espresso la loro gioia. Mentre hanno pianto coloro che in coscienza non possono ammettere un tale mutamento di attitudine dottrinale.

Ma vi è ancora di peggio. La Dichiarazione dottrinale citata da Don Pflüger aggiunge: il quale [Vaticano II] a sua volta chiarisce certi aspetti della vita e della dottrina della Chiesa, implicitamente presenti in esso e non ancora formulati.

C’è da ritenere che i figli spirituali di Mons. Lefebvre, che hanno conservato una sia pur debole memoria, finiscano col restare quantomeno costernati al cospetto di una tale formula. Poiché a suo tempo il fondatore della loro Fraternità faceva un discorso del tutto diverso, quando metteva ufficialmente nero su bianco il suo giudizio sul Concilio. Rivolgendosi all’allora Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, il Card. Ottaviani, il 20 dicembre del 1966 (la lettera sarebbe da leggere per intero), Monsignore scriveva:

«Mentre il Concilio si apprestava ad essere una nube di luce nel mondo di oggi, se si fossero utilizzati i testi preconciliari nei quali si trovava una professione solenne della dottrina certa nei confronti dei problemi moderni, oggi si può e si deve sfortunatamente affermare che: dal momento che il Concilio ha innovato, in maniera pressoché generale esso ha scosso la certezza delle verità insegnate dal Magistero autentico della Chiesa in quanto appartenenti definitivamente al tesoro della Tradizione.»

Ed è lo stesso Mons. Lefebvre che entra nei particolari:

«Che si tratti della trasmissione della giurisdizione dei vescovi, delle due fonti della Rivelazione, dell’ispirazione scritturale, della necessità della grazia per la giustificazione, della necessità del battesimo cattolico, della vita della grazia per gli eretici, gli scismatici e i pagani, dei fini del matrimonio, della libertà religiosa, dei fini ultimi, ecc… su questi punti fondamentali la dottrina tradizionale era chiara e unanimemente insegnata nelle università cattoliche. Oggi, numerosi testi del Concilio su queste verità permettono di dubitarne.»

Dopo una tale enumerazione, cosa rimane delle grandi tesi conciliari? Quali sono questi “aspetti della vita e della dottrina della Chiesa” che si suppone siano stati chiariti dal Vaticano II?
Invano mi sono armato di buona volontà… confesso che non sono riuscito a trovarli.

Certo, è stata dichiarata per la prima volta la sacramentalità dell’episcopato, ma anche questa affermazione, che era già comunemente ammessa, è stata offuscata dal Concilio. Se esso la menziona è per poter mettere avanti la sua nuova dottrina sulla trasmissione della giurisdizione episcopale, contraria agli insegnamenti espliciti di Pio XII. Si usa il verbo “chiarire”… ma questo non è il linguaggio della verità, né può essere quello della Fraternità.

Supporre il chiarimento reciproco fra la Tradizione e il Vaticano II è una sciocchezza, frutto dell’accecamento, se si legge ancora la dichiarazione di Mons. Lefebvre del 1966:

«Sarebbe negare l’evidenza, chiudere gli occhi, il non affermare coraggiosamente che il Concilio ha permesso a quelli che professano gli errori e seguono le tendenze condannate dai Papi, di credere legittimamente che le loro dottrine siano ormai approvate.»

Passiamo adesso alla terza affermazione: “Le affermazioni del Concilio Vaticano II e del successivo Magistero Pontificio, relative alla relazione fra la Chiesa cattolica e le confessioni cristiane non cattoliche, devono essere comprese alla luce dell’intera Tradizione”.

La lettura di quest’ultima frase fa scaturire una prima domanda: perché la questione ecumenica è la sola menzionata? L’affermazione conciliare della libertà religiosa, la trasmissione della giurisdizione episcopale o anche lo statuto dell’ebraismo attuale (beneficiario o meno dell’alleanza salutare di Dio malgrado il suo rifiuto del Salvatore), o più particolarmente la nuova deleteria ecclesiologia che è all’origine di tutte queste deviazioni conciliari… tutte queste novità e molte altre ancora non sarebbero più dei punti non negoziabili per la Fraternità San Pio X? Non negoziabili in quanto derivate dalla stessa fede della Chiesa?
Ma la buona volontà ci porta ad ammettere un’altra possibilità, anche se non appare dalla lettura di queste righe: supponiamo che la questione ecumenica sia menzionata qui solo a titolo d’esempio.

In queste materie ove la divergenza impegna la fede, la Dichiarazione chiede di accettare gli “insegnamenti” del Vaticano II per “comprenderli” alla luce della Tradizione. Testi alla mano, non possiamo evitare di sottolinearne l’utopia.

Come ammettere che lo Spirito di Cristo non ricusi di servirsi delle comunità eretiche o scismatiche come di strumenti di salvezza (Unitatis Redintegratio, n° 3, §3), se si aderisce al dogma cattolico tante volte definito dal Magistero della Chiesa: fuori dalla Chiesa non v’è salvezza? Poiché le due proposizioni sono contraddittorie, si escludono a vicenda, e non si può pretendere di adottarle entrambe, salvo che alle parole non si tolga il loro significato… cosa che allora rende impossibile ogni professione di fede!

Come ammettere l’insegnamento del Magistero pontificio posteriore quand’esso afferma che tutti i battezzati, cattolici o no, sono vivificati dallo stesso e indivisibile Spirito di Dio (Giovanni Paolo II al Consiglio Ecumenico delle Chiese), senza rimettere direttamente in causa la verità più ferma secondo la quale ogni peccato mortale (e cosa c’è di maggior peccato mortale contro la fede del peccato di eresia?) fa perdere questa vita secondo lo Spirito Santo (la grazia santificante)?
Anche qui, l’anima cattolica è al cospetto di proposizioni contraddittorie in materia di fede, proposizioni contraddittorie e dunque inconciliabili.

Come ammettere che i vescovi ortodossi esercitano una vera giurisdizione sui loro fedeli – insegnamento comune per i detentori del Magistero a partire dal Vaticano II – senza rimettere direttamente in causa la fede della Chiesa secondo la quale ogni giurisdizione deriva dal Sommo Pontefice che solo ne ha la pienezza?

In questo solo dominio ecumenico, gli esempi di questo genere potrebbero moltiplicarsi, e la lista potrebbe allungarsi a dismisura se si volessero prendere in considerazione tutti problemi sollevati dalle abituali affermazioni dei detentori del Magistero da dopo il Vaticano II. Come ammettere, per esempio, con Benedetto XVI (discorso alla sinagoga di Roma), che l’Antica Alleanza rimane salvifica, quando San Paolo afferma esattamente l’opposto nelle lettere ai Romani e ai Galati?

Questi pochi esempi manifestano la vera gravità della Dichiarazione dottrinale inviata a Roma nell’aprile scorso. Essa esclude la possibilità di ogni contraddizione tra queste differenti affermazioni, per costringersi sulla strada di un’impossibile ermeneutica della continuità: non possono aversi degli sviluppi omogenei tra due contraddizioni. Richiudersi in questa logica non è di nocumento alla sola Fraternità, è soprattutto di nocumento al bene della fede e dunque all’intera Chiesa.


Fonte: Una Vox

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